La Trilogia del tavolino di Rita Frongia: la vita a suon di Gin

La vecchia|
La vecchia|Gin Gin

Accade raramente, nel teatro italiano, la possibilità di seguire passo passo, in una sola volta, l’evolversi artistico di una compagnia; ancor più raramente accade di approfondire, nello stesso modo, il percorso drammaturgico di un autore.
L’occasione ci è capitata a La Spezia, nel fervido spazio gestito dalla Compagnia Gli Scarti, che non a caso si chiama Fuori Luogo, in una città alquanto difficile per le arti in generale.
E’ qua che, in una domenica piovosa di dicembre, abbiamo assistito in successione temporale ai tre ultimi lavori che costituiscono fino ad ora il principale corpus drammaturgico di Rita Frongia: “La vita ha un dente d’oro”, “La vecchia” e “Gin Gin”, chiamata non a caso “Trilogia del tavolino”, visto che tutte e tre le creazioni si svolgono intorno ad un semplice tavolino.

Ma le somiglianze fra i tre lavori non si fermano qui, tanto da poter dire, senza azzardare molto, che ci poniamo, in perfetta continuità, davanti ad un’opera sola.
Tutt’e tre sono dialoghi fra due persone: nel primo protagonisti sono due solitari passeggeri, trovatisi per caso in un bar o in un’osteria che, per ingannare la loro solitudine, vorrebbero giocare a carte; nel secondo invece, all’interno di un sordido ufficio, si trovano di fronte un falso “artefice magico” di eduardiana memoria e un cliente assai curioso, un poeta alla ricerca di risposte; infine nell’ultimo la scena è per due sorelle, assai diverse per temperamento, ma anch’esse alla ricerca di risposte.
In tutte e tre le situazioni si ride di gusto, attraverso idiomi diversi tra loro ma all’insegna, come dice il proverbio, del “ride bene, chi ride ultimo”.

In scena pochi elementi: oltre al tavolino mezionato, oggetti che sembrano esterni alle parole dette, ma che partecipano con il loro senso ed il loro rumore, perpetuato al fluire dei pensieri. Un mazzo di carte, dei bicchieri e una chitarra nel primo, degli strani tarocchi nel secondo, del Gin e un libro de I Ching nel terzo.
Protagoniste assolute sono le parole, che si mescolano in una narrazione solo apparente dove, attraverso un ribaltamento inatteso, la morte fa sempre capolino, silente ed impietosa.
Si è detto le parole, certo, ma sorrette da sguardi, gesti, ammiccamenti di tre magnifiche coppie di attori (Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur nel primo, Marco Manchisi e Stefano Vercelli in “La vecchia”, Angela Antonini e Meri Brancalente in “Gin Gin”), che danno vita ad altrettanti mondi apparentemente diversi, ma che hanno in comune domande senza risposta: perché di fronte alla morte non possiamo che avere solo domande.

Le parole si rincorrono lievi e pesanti, commisurandosi le une con le altre, in una narrazione di fatti assai minuta, di avvenimenti difficili da decifrare con frasi compiute. Sappiamo di non doverci far ingannare dalla falsa bonomia dei personaggi che ci stanno davanti, e sappiamo che anche noi, come i personaggi in scena, non avremo risposte certe da dare, ma solo supposizioni…

“La vita ha un dente d’oro” è un’antica espressione bulgara che non trova corrispondenza nella nostra lingua. Oggi l’espressione non è più in uso, ma pare venisse utilizzata per alludere al fatto che in tutto ciò che è vero c’è sempre un artifizio, una menzogna, un’alterazione d’organi. In questo primo spettacolo ci sono due viandanti: il primo, Morsio Stiotir, abita per strada, ha un cane che si chiama Full e ha visto poche aquile nella sua vita. Dice d’essere di antiche discendenze croate e parla in una lingua deformata attraverso cui narra fiabe conturbanti. Il suo interlocutore si chiama Mors, che è anche il nome di una bevanda russa fatta con la mortella di palude, e conosce anche lui il croato. Tutti e due guardano le stelle, mentre Mors canticchia pure. Ha avuto una vita intensa, è lui che ce lo comunica alla maniera di Rimbaud: “Un tempo, se mi ricordo bene, la mia vita era un festino in cui tutti i cuori si aprivano, tutti i vini scorrevano, una sera, ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. E l’ho trovata amara”. Mors/Pennacchia imbraccia la chitarra e canta; Morsio/Stetur si addormenta, forse per sempre.

Più semplice raccontare “La vecchia”, dove un illusionista di parole legge i tarocchi a un inqueto poeta, turbato perché vorrebbe conoscere l’origine del dolore che gli cova dentro, ogni giorno sempre più forte. Ovviamente chi ha davanti non ne conosce le ragioni, va a tentoni, fa finta di saperne in profondo le ragioni. Ma sarà poi finalmente lo stesso poeta a capire le motivazioni, abbandonando l’imbroglione davanti alla carta ferale: La Vecchia, l’arcano maggiore, il 13, la morte.
L’impostore rimarrà da solo per aver detto finalmente la verità al poeta e a sé stesso. “I tarocchi che usiamo in scena sono di Stefano Vercelli – ci racconta l’autrice – Li ha creati vent’anni fa e hanno attraversato continenti e performance. Marco Manchisi mi ha accompagnata anche nella costruzione del copione, ho lavorato in armonia con la sua storia teatrale”. E ciò lo abbiamo capito dalla telefonata in cui in “lingua” napoletana, il pulcinellesco Manchisi, come solo lui sa fare, spiega al suo interlocutore la ricetta per cucinare l’uovo sodo.

Gin Gin
Gin Gin

Eccoci infine a “Gin Gin”. Queste sorelle che bevono Gin a go go sono assai diverse tra loro: una canta nei night club e l’altra vende cagnolini di stoffa fatti a mano; la prima sembra la più esperta, disserta su tutto e su tutti nel suo romanesco esilarante. Un po’ come il fattucchiere del lavoro precedente, fa finta di conoscere la vita, e la vuole insegnare all’altra, tanto che s’indispettisce se viene contaddetta, anche sulle cose più insignificanti. Pure qui nel finale, dopo tanto turbinio di parole, la morte la farà da padrona, e sarà l’altra sorella ad insegnare qualcosa, senza bisogno di libri profetici.

Siamo davanti a tre ‘piccoli’ spettacoli, in cui apparentemente non succede niente, ma in cui osserviamo svolgersi la vita, nei suoi minimi dettagli, senza bisogno di tante spiegazioni o di metafore illuminanti ed esemplificatrici: entriamo in quelle stesse vite quasi senza accorgercene. E non è poi questo ciò che vorremmo sempre dal grande teatro?

La vita ha un dente d’oro
con Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur
drammaturgia Rita Frongia
regia Claudio Morganti
produzione Esecutivi per lo Spettacolo/ Gli Scarti
con il sostegno di Regione Toscana/Teatro il Moderno di Agliana

La vecchia
regia e drammaturgia Rita Frongia
con Marco Manchisi e Stefano Vercelli
produzione Artisti Drama

Gin Gin
con Angela Antonini e Meri Bracalente
drammaturgia e regia Rita Frongia
produzione Esecutivi per lo Spettacolo/ Artisti Drama
con il sostegno di Regione Toscana/ArtistiDrama/Armunia/TeatroDueMondi

Visti a La Spezia, Auditorium Dialma Ruggero, il 16 dicembre 2018

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