Tristano e Isotta. Interno borghese per il debutto di Guth al Regio di Torino

Photo: Ramella&Giannese - Edoardo Piva|Photo: Ramella&Giannese - Edoardo Piva|Tristano / Peter Seiffert e Isotta / Ricarda Merberth (photo: Ramella & Giannese)
Photo: Ramella&Giannese - Edoardo Piva|Photo: Ramella&Giannese - Edoardo Piva|Tristano / Peter Seiffert e Isotta / Ricarda Merberth (photo: Ramella & Giannese)

“Tristan und Isolde” è uno dei grandi capolavori della musica operistica. Come accade a tutte le opere di Wagner, è assai ardua da mettere in scena, non solo per l’allestimento, ma soprattutto per la difficoltà di trovare nel nostro Paese interpreti adeguati, e per la scarsa abitudine di un pubblico poco propenso ad apprezzarla, non solo per la sua lunghezza.
La sfida avviene al Teatro Regio di Torino, diretta da Gianandrea Noseda, con la regia di Claus Guth.

La prima rappresentazione dell’opera avvenne il 10 giugno 1865 a Monaco al Teatro Nazionale, mentre la prima rappresentazione italiana avvenne 2 giugno 1888 al Teatro comunale di Bologna, presente un entusiasta Richard Strauss nella traduzione di Arrigo Boito, diretta da Giuseppe Martucci.
Rimasta famosa, al Teatro alla Scala di Milano, il 29 dicembre 1900, anche una mitica edizione sotto la direzione di Arturo Toscanini.

Il libretto, scritto dallo stesso Wagner, è basato sul poema “Tristan” di Gottfried von Strassburg, a sua volta ispirato dalla storia di Tristano, raccontata in lingua francese da Tommaso di Bretagna nel XII secolo.
Wagner condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi completamente dalla storia originale, caricandola, come suo solito, di allusioni filosofiche.
Terminato a Lucerna nel 1859, “Tristano e Isotta” venne inizialmente proposta al teatro di Vienna, dove però fu respinta, giudicata ineseguibile. Dovettero trascorrere ben sei anni prima che l’opera potesse essere rappresentata per la prima volta col sostegno di Ludwig II.

E’ il binomio amore e morte che imbeve tutto questo capolavoro, che inizia sulla nave, capitanata dall’eroe Tristano, che sta conducendo Isotta, figlia del re d’Irlanda, in sposa a Marke, re di Cornovaglia.
Sappiamo da Isotta, che si confida alla sua ancella Brangania, che Tristano, dopo essere stato guarito da lei per una ferita mortale e dopo averle giurato eterna fedeltà e riconoscenza, l’ha ingannata, chiedendola in sposa non per sé, ma per il suo anziano zio.
Tristano era stato anche l’uccisore del fidanzato di Isotta, Morold, patriota irlandese. Isotta ordina così a Brangania di preparare un potente veleno in una coppa: vuole morire con Tristano, che accetta di annientare se stesso per l’oltraggio compiuto verso di lei. Ma Brangania contraddice all’ordine della sua signora, sostituendo il veleno con un filtro d’amore.

I due sono così presi da una passione irresistibile; incontrandosi nel giardino del palazzo di Marke vengono interrotti proprio dall’arrivo del re. Marke è sconvolto: Tristano ha infranto, con il suo comportamento, le regole feudali della lealtà e della fedeltà al proprio signore. Isotta dovrà seguirlo in esilio nel suo castello in Bretagna. Isotta accetta, ma intanto un cortigiano sfida Tristano a duello e lo ferisce gravemente.

Tristano giace incosciente nel suo castello, vegliato dal fido scudiero Kurwenal, che cerca di calmarlo annunciandogli il prossimo arrivo di Isotta. Tristano potrà così morire ricongiunto all’amata. Infatti appena Isotta giunge, egli muore tra le sue braccia. Assorta nella contemplazione di Tristano, Isotta, nonostante il perdono di Marke, spira sul corpo di Tristano, con un inno di beatitudine per la loro finalmente realizzata riunificazione nel “Tutto”.

Come succede per le opere di Wagner, la trama è solo l’ordito di un tessuto assai più complesso, imbevuto di sottotesti filosofici, non solo addebitabili a Schopenhauer.
Il rapporto tra Tristano e Isotta non appartiene alla sequela di amori impossibili perché ostacolato dalle avversità, bensì soccombe per un amore per sua stessa natura impossibile, condannato a vivere nell’infinito e soddisfabile solo nella morte.

Qui ovviamente gli appassionati del compositore tedesco e anche il regista di questo allestimento rimandano la vicenda all’omologo amore intercorso tra il musicista e Mathilde Wesendonck (moglie del suo migliore amico), destinato a restare inappagato.

L’opera rimane una delle più omogenee di Wagner, nel rapporto tra musica e scena; in più, servendosi del cromatismo e della sospensione armonica, il compositore ottiene musicalmente un effetto di attesa, di allentamento della melodia che riempie una trama, dove quasi nulla avviene e dove tutto viene alluso.
Così succede per il tema di Tristano, già presente nel preludio, che pervade tutta l’opera e si stempera come in un gorgo nel celeberrimo canto di morte e trasfigurazione di Isotta (Liebestod).

Claus Guth reinventa un “Tristano e Isotta” di intonazione borghese, immettendo l’opera nella cornice ottocentesca di una villa che, in una sorta di piano sequenza, svela piano piano tutte le stanze.
Attraverso il ruotare della scena i due amanti vi solcano in mezzo, soli, nel loro impossibile amore, mentre gli astanti sembrano ignorarli. E’ la luce poi che illumina i loro sentimenti in un binomio tra luce e ombra, giorno e notte, dove la notte, è un momento meraviglioso in cui la paura della morte si sublima in un abbandono totale all’amore, mentre il giorno invece li offre allo sguardo freddo di un mondo che non li comprende.

L’allestimento di Guth, curato dall’Opernhaus di Zurigo, con le scene e i costumi di Christian Schmidt e le fondamentali luci di Jurgen Hoffmann, segue tutti questi passaggi, dosando chiarori ed ombre con grande efficacia, utilizzando tutte le fonti e le gradazioni possibili.
Senza sembrare passatisti, al di là dell’indiscutibile fascino di questa edizione dell’opera, ci pare che, se pur l’ambientazione borghese aumenti e connoti la vicenda di un amore ostacolato dalla morale bigotta che Wagner conosceva benissimo, dall’altra privi l’opera del suo allure romantico, dove amore e morte convivono in un immaginario ben diverso. Ci è mancato il mare, che pervade spesso l’opera e il sublime di una morte che qui viene apparecchiata su una tavola.

Tristano / Peter Seiffert e Isotta / Ricarda Merberth (photo: Ramella & Giannese)
Tristano / Peter Seiffert e Isotta / Ricarda Merberth (photo: Ramella & Giannese)

Veniamo ai cantanti. Peter Seiffert, come Tristano, mostra qualche difficoltà nel sostenere la parte difficilissima che Wagner gli ha affidato, si pensi solo al lunghissimo monologo del terzo atto. Se il volume della voce risulta ancora buono, deboli ci sono sembrati i cambi di registro e le mezze voci.
Il soprano tedesco Ricarda Merbeth nella parte di Isotta è sostituita (è davvero il caso di dire… in corso d’opera) per colpa di un improvviso abbassamento di voce da Rachel Nicholls, che ciò nonostante è in grado di supportare in modo congruo e appassionato i diversi aspetti emotivi del personaggio. Perfetta la Brangäne di Michelle Breedt che si presta con sicurezza allo sdoppiamento del personaggio pensato dal regista (l’ancella nel primo atto diventa un contraltare razionale della sua padrona); ci è piaciuto anche il re Marke di Steven Humes, che per la postura e l’intonazione ci ha ricordato Il Filippo II verdiano.

Gianandrea Noseda non ha avuto nessuna paura ad affrontare una partitura così corposa e difficile, appassionandoci davvero per la capacità di ridonarci intatti tutti gli abbandoni lirici, gli scatti improvvisi di forza, le atmosfere sognanti di un’opera così meravigliosa. Ed ora, dopo questa eccellente prova wagneriana, ci aspettiamo dal Regio anche la Tetralogia!


Vogliamo introdurre in questa occasione anche una giovane nuova penna di Krapp, Silvia Ferrannini, che seguirà per noi la stagione del Regio e non solo. La accogliamo attraverso questa ulteriore visione di “Tristano e Isotta”.

La prima italiana del wagneriano “Tristan und Isolde”, allestito dall’Opernhaus di Zurigo per la regia di Claus Guth e diretto al Teatro Regio da Gianandrea Noseda, è ben diverso dall’esordio torinese del 1897. In quella sera di San Valentino, ritto sul podio, vi era un giovane e determinatissimo Arturo Toscanini, il quale, dopo aver sottoposto orchestrali, cantanti e maestranze ad estenuanti prove, poté affermare con sicurezza che era stata una delle imprese più difficili mai affrontate, specialmente per il tenore che avrebbe dovuto dare voce e volto a Tristano.
In questo caso il duro compito è spettato a Peter Seiffert, uno dei più celebri heldentenor del repertorio wagneriano e protagonista, tra l’altro, di memorabili incisioni con Barenboim, Tate, Sinopoli, Metha. Ad impersonare Isotta è la soprano Ricarda Merbeth, una delle artiste di punta del panorama drammatico contemporaneo, affiancata dalla virtuosa mezzosoprano Micheele Breedt nel ruolo dell’ancella Brangäne.

Notoriamente la “Handlung” di Richard Wagner è una delle opere più ostiche da portare in scena, per il semplice fatto che l’azione è poverissima. Il cuore narrativo del poema cavalleresco di Gottfried von Strassburg (XIII secolo) è l’ineludibile binomio amore-morte che si delinea quando l’adulterio tra la principessa d’Irlanda Isolde e il nipote del suo promesso sposo Tristan prende corpo.
L’illiceità della loro passione fa sì che sulla narrazione aleggi sempre un’aura di morte, presagita fin dal Preludio dall’”accordo di Tristano”, cellula madre della partitura e presagio del Liebestod (morte d’amore): non casualmente nei momenti cruciali della vicenda il motivo si ripresenta. Tuttavia l’azione vera e propria è quasi tutta condensata nei finali d’atto, dei quali il primo e secondo sono preparazione e premonizione.

Avvenimento scenico e sonoro fanno davvero la magnificienza dell’opera: l’orchestra parla con rara espressività dell’interiorità dei personaggi; il cromatismo e la sospensione armonica tengono gli spettatori sul fragile filo dell’attesa, sebbene sia evidente fin dal principio che non c’è redenzione per i due animi perduti nel peccato. Tristan e Isolde vivono in funzione della morte: la sublimazione dell’amore li porterà solo ancora più a capofitto verso la fine.

L’opera wagneriana è tutta innervata di tensioni filosofiche che s’affiancano e riflettono nella realizzazione lirica: ma per quanto i melomani più sfegatati facciano fatica ad ammetterlo, il “Tristan und Isolde” è anche (e forse soprattutto) monumentale teatro, non solo dramma musicale.

Al di là dell’anelito mistico della narrazione, quel che abbiamo davanti è un matrimonio fallimentare fin dal principio (Isolde è disperata alla sola idea di convolare a nozze con il re di Cornovaglia Marke), il conseguente adulterio e la colpa da dover scontare, così come il costume e le necessità sociali impongono. La vacuità del decoro borghese, la profonda infelicità di chi non può fuggire oltre le mura domestiche: non pare dunque di trovarci in un dramma di Ibsen? La vicenda non potrebbe aver luogo in una “casa di bambola”?

Claus Guth afferra questa suggestione e alla prima alzata di sipario stupisce il pubblico: siamo in pieno Ottocento, in una villa elegantemente arredata, dalle camere da letto alla sala da pranzo, fino ovviamente al salotto. Unico scorcio esterno: il giardino d’inverno, dove i due adulteri confessano la loro reciproca passione, destinata tuttavia ad essere ostacolata proprio dall’interno, dall’affettato mondo dei benpensanti.

La scenografia è un lungo piano sequenza cinematografico messo in moto da un pannello girevole; impreziosita dalle scene e dai costumi di Christian Schmidt e dalle luci di Jürgen Hoffmann, ci mostra i molteplici volti della realtà borghese: frivola e mistificatrice dalla parte di chi aderisce agli stereotipi, irrequieta e palpitante dalla parte di chi ama, pur non potendo.
Le scene che si scalzano e giustappongono continuamente sul palco sono anche concretizzazione del tema del doppio (sempre caro a Guth: basti pensare all’“Höllander” di Bayreuth del 2003), oltre che raccordo e completamento della fluidità e compattezza del dettato lirico.
Guth non dimentica le peculiarità della partitura wagneriana, ma nemmeno elude il fatto che si deve raccontare una storia: più è vicina alla sensibilità dei contemporanei, più ci è comprensibile. In questo senso l’ambientazione ottocentesca funziona perché risveglia una precisa parte del nostro immaginario nella quale l’interno borghese/aristocratico è lo spazio del falso costume, dell’ipocrisia di quella classe sociale.
È una lezione che Ibsen e Strindberg stavano impartendo molto chiaramente, e che Wagner conosceva bene. Guth non ha dubbi sulla modernità del dramma e colloca i personaggi in un quel contesto perché sceglie la rappresentazione di esseri umani innamorati, non emblemi della passione amorosa. Il “Tristan” è un’opera teatrale interiorizzata e psicologicamente ben definita.

Photo: Ramella&Giannese - Edoardo Piva
Photo: Ramella & Giannese

Il tema del doppio si traduce anche nella contrapposizione luce/ombre, sole/tenebra, mattina/notte: “Tristan und Isolde” è poema della notte, sublime momento in cui il timore della morte si sublima in abbandono totale all’amore. Agli amanti è invisa la luce del giorno, messaggera del ritorno al vuoto mondo della quotidianità istituzionale.
Guth investe una cura particolare nella luce, offrendocela nella sua precisa gradazione in ogni momento del dramma. Nella tenebra si può essere sé stessi, pare dirci Wagner: tale messaggio è significativo se si dà credito all’ipotesi secondo la quale l’autore stesso avrebbe trasposto nella vicenda del Tristan il suo personale intrigo coniugale. La passione tra Richard e Mathilde, la moglie del ricco commerciante (e amico) Otto Wesendonck, pare esser stata trascinante, fino a sfociare nel prevedibile adulterio, portato avanti finché Wagner si rifugerà a Venezia.
Ma non è difficile immaginare che Guth avesse ben presente anche questa implicazione autobiografica, che rafforza la scelta allestitiva: il triangolo Tristan-Isolde-Marke sarebbe la trasfigurazione di quello reale, Richard-Mathilde-Otto. Come fosse mosso dall’urgenza di fantasticare anche in musica quel sogno d’amore irrealizzabile, Wagner sogna se stesso nella tragedia trobadorica, e Guth onora appieno questa ispirazione.
Ed è interessante notare che in questo caso una delle componenti che più ha contribuito alla riuscita dello spettacolo è certamente il basso che interpreta re Marke, Steven Humes: già al Regio per la produzione inaugurale dell’Holländer, la sua interpretazione spicca per intensità e coinvolgimento drammatico.

Tristan e Isolde tornano dunque sulla ribalta torinese in grande stile, attraverso un linguaggio scenico che, possiamo immaginare, a Wagner sarebbe piaciuto. D’altro canto, il compositore di Lipsia intendeva creare un’estasi continua, “il più bello di tutti i sogni, un monumento”: un incanto, tuttavia, destinato a raggiungere l’acme nella morte e a dissolversi.

TRISTANO E ISOTTA
Azione in tre atti
Libretto di Richard Wagner
edizione in lingua originale tedesca
Musica di Richard Wagner

Personaggi e Interpreti:
Tristan, nipote di Marke Peter Seiffert
e amante di Isolde tenore Stefan Vinke (11, 14, 17)
Isolde, principessa irlandes Ricarda Merbeth
e promessa di Marke soprano Rachel Nicholls (11, 14, 17)
Re Marke, re di Cornovaglia basso Steven Humes
Kurwenal, servo e amico di Tristan baritono Martin Gantner
Brangäne, damigella di Isolde mezzosoprano Michelle Breedt
Melot, cavaliere del re Marke tenore Jan Vacík
Un pastore tenore Joshua Sanders
Un timoniere baritono Franco Rizzo / Giuseppe Capoferri (11, 14, 17)
Un giovane marinaio tenore Patrick Reiter

Direttore d’orchestra Gianandrea Noseda
Regia Claus Guth
Ripresa da Arturo Gama
Scene e costumi Christian Schmidt
Luci Jürgen Hoffmann
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Orchestra e Coro del Teatro Regio

Allestimento Opernhaus Zürich
Prima italiana al Teatro Regio

Durata: 5h 23′

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