Ulrike Quade Company e Nori Sawa: dalla tragedia greca alla tradizione giapponese

Antigone - Ulrike Quade Company (photo: Anja Beutler)
Antigone - Ulrike Quade Company (photo: Anja Beutler)
Antigone – Ulrike Quade Company (photo: Anja Beutler)

La Tragedia: limpida, quieta e perfetta. E la Speranza, ingannevole, che vorrebbe gli uni vincitori e gli altri vinti nelle battaglie campali ed in quelle intestine (viscerali) si annulla sotto il peso schiacciante del Fato, unico deus ex machina che tutti schiaccia ed eguaglia. Non resta che urlare: “I said shout, not cry, groan or complain” impera una voce femminile fuori campo.

E’ così che la Ulrike Quade Company, compagnia olandese fondata nel 1999 e con sede ad Amsterdam, rilegge l’“Antigone” sofoclea per la 24^ edizione del Festival internazionale di teatro di figura Incanti, iniziato il 6 ottobre alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino e nel pieno del suo svolgimento, fino a lunedì 12.
Partiamo da qui per raccontarvelo.

Visuale, coreutico, elettronico, oltre ogni “performative boundary”, lo stile inedito di Ulrike Quade, una delle più importanti registe di teatro visuale olandese, qui affiancata dalla coreografa austriaca Nicole Beutler, unisce in “Antigone” le tecniche della danza contemporanea allo stridore metallico della musica techno, all’enigmatica ieraticità delle marionette bunraku. E le luci fredde, sospensive, invadono una scena vuota di cui i soli corpi e i soli pupazzi sono componenti spaziali e temporali del compiersi tragico.

“Antigone”, indefinita nel tempo e dunque eterna. E’ il potere dei classici: sempre attuali, sempre vivi, ciclicamente rivelatori. La fusione di corpi e marionette resa attraverso l’interagire dei ruoli crea in “Antigone” un piano narrativo estremamente intenso: gli attori invisibili nei retroscena della conduzione tecnica o danzatori in primo piano, e i personaggi bunraku, che assumono vita propria a fianco dei loro burattinai. Uno spettacolo tra corpo e figura.

Tuttavia l’attualizzazione con cui l’Ulrike Quade Company attraversa il testo greco a quasi 2500 anni di distanza non si limita al piano estetico, ma penetra il livello drammaturgico: se la morte di Polinice giunge in Sofocle nei primi versi del Prologo come fatto già compiutosi, narrato per bocca di Antigone, è qui invece ampiamente spettacolarizzata.

Un pupazzo vestito da militare (un soldato occidentale di oggi, un giovane volontario dell’esercito?) danza nella penombra il suo campo di battaglia. Spavaldo, arrogante, atletico, manipolato con lo stesso ritmo tossico e meccanico che assumono i movimenti dei personaggi nei videogiochi di guerra, Polinice lancia bombe a mano ed impugna mitragliatrici immaginarie rivolto verso la fittezza del pubblico. Sempre guardandolo, sempre allo spettatore rivolto, si accascerà sotto la scarica di risposta del nemico invisibile.

E’ una composizione elettronica inquietantemente ballabile a dare suono al sorvolare degli elicotteri, alle esplosioni, al consumarsi dei proiettili. Ed infatti, la “colonna sonora” della morte di Polinice verrà ballata dai corpi incappucciati dei performer in scena e dal pupazzo-personaggio Antigone: una coreografia esaltata, violenta, ripetitiva, ginnica, un rituale di addestramento al lutto.

Ciò che prima giungeva per l’indiretto messaggio di testimoni e reduci, inafferrabile e lontana tragedia depositata nella narrazione e nella memoria collettive, oggi è esperienza individuale, disponibile crudamente in tempo reale: la morte di Polinice è oggi nel salotto di casa di tutti, sullo schermo tv o nel database di un computer acceso con accanimento terapeutico.

Ulrike Quade Company evoca l’immaginario della violenza contemporanea a partire dal gesto antiautoritario di Antigone, simbolo della coscienza individuale contro la Stato e della ribellione contro le leggi ingiuste, ma anche attraverso le parole della sorella Ismene, a cui viene affidato il disilluso epigolo: “I chose life, because I could” si giustifica la marionetta, sigaretta accesa, alla sala piena, ormai illuminata.
E di fronte alla mattanza così abilmente inscenata, storditi dal volume delle basse frequenze delle scelte musicali, si finisce per accettare confusi anche la sua scelta di sopravvivenza.

Un’altra figura femminile, la principessa Kaguya, spezza i toni tragici di Sofocle e ci porta nel Giappone del X secolo, al racconto Taketori Monogatari, considerato il più antico libro giapponese stampato su carta.
E’ Nori Sawa, maestro del teatro di figura nipponico, già ospite l’anno scorso ad Incanti con una delicatissima rivisitazione del “Giardino dei Ciliegi” di Čechov.

Nella seconda giornata della rassegna Nori Sawa dà vita a una fiaba: un anziano tagliatore di bambù incide una canna che risplende nella notte; tagliandola trova al suo interno una bambina, grande come un pollice.
L’eccezionale bellezza della donna, diventata adulta, si diffonderà come notizia nel regno; presto cinque principi si presentano alla porta chiedendo alla principessa di scegliere uno di loro. Kaguya chiederà come prova doni impossibili, e tutti falliranno, ma il reale motivo per il quale Kaguya non vuole scegliere alcun pretendente è perché in realtà appartiene alla Luna e lì vuole tornare.

Per raccontare questa storia il maestro giapponese fa uso delle antiche maschere della tradizione e della mimica, liricamente accompagnato dalle musiche composte da Toshihiro Nakanishi. Cartoonesco ma poetico e leggero, semplice come una fiaba antica.

Altrettanto poetico è l’omaggio alla madre, sarta di scena ed artigiana del teatro di figura recentemente scomparsa: Nori Sawa vivifica, in un corto teatrale che segue “Kaguya: the bamboo princess”, l’eredità artistica e il lascito della sua maestra di vita e di arte attraverso le marionette-matrioska da lei create e i suoi tessuti, realizzando una gemmazione danzata e continua di volti, capace di celebrare con estrema delicatezza il ciclo della vita.

Ma Nori Sawa era già stato protagonista per la serata di apertura del festival con lo spettacolo “Flotsam Blues”, ultima creazione del PIP – Progetto Incanti Produce rivolto alla formazione di marionettisti, teatranti e burattinai emergenti: un mélange di tecniche, tra lingua e gesto e musica, che quest’anno ha visto impegnati due polacchi e due italiane (Laura Bartolomei, Julianna Dorosz, Marek Marcel Gornicki e Anna Guazzotti).

Una serata accompagnata anche dalla rivisitazione allegorica de “I Viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, messa in scena da Controluce, in co-produzione con il quintetto Boulouris 5 e Francesco Biamonte nello spettacolo “Gulliver. All’ombra dell’uomo montagna”, al suo debutto.
Splendide le incursioni di valzer, tango nuevo e minuetti a condurre i movimenti ed il cantato-recitato degli attori: una filastrocca in francese, lingua prestatasi alle composizioni d’archi e fiati delle musiche originali, ripercorre le peripezie dell’omonimo romanzo di satira, riproducendole attraverso giochi d’ombra che appaiono e scompaiono come evocazioni oniriche di mondi lontani.

Il Festival Incanti prosegue nei prossimi giorni (il programma prevede, fra gli altri, lo spettacolo frutto della collaborazione fra la compagnia tedesca Retrofuturisten e il gruppo indonesiano Papermoon Puppet Theatre e le produzioni nostrane di Riserva Canini, La Turca Cane e Pesci Volanti), noi ci saremo e continueremo a raccontarvelo.

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