Un Altro amore: Malosti fra Thérèse e Isabelle

Thérese e Isabelle
Thérese e Isabelle
Thérese e Isabelle (photo: Andrea Macchia)

Se la preposizione semplice “a”, che si usa per il teatro nello specifico complemento di moto a luogo “vado a teatro”, ha sostituito “al” dev’essere perché non è tanto un luogo, quanto un’attività, una condizione esistenziale.
Così, seguendo questa nostra fantasiosa ricostruzione, sarà per vado “a lavoro”, dovunque sia e qualunque lavoro si faccia, vado “a casa” e non importa come sia questa casa.

Nel caso del teatro, però, se ciò che conta non è il luogo fisico in quanto edificio, non è nemmeno lo spettacolo che vi si gode, bensì l’intero contesto sociale, spaziale, emotivo e, di nuovo, esistenziale. Chi va a teatro solo, poi, gode anche del privato altrui, specialmente se ha orecchie lunghe.

«È sempre difficile arrivare a capire quanto sia forte il piacere di stare insieme. Tanto più forte di quello dell’innamoramento» afferma testualmente una signora sui settant’anni, seduta dietro alla mia poltrona che, a luci già discendenti, lancia a voce troppo alta questa frase sul palco, come un sasso.

Lo spettacolo che sta per iniziare è “Thérèse e Isabelle” di Valter Malosti, anteprima dell’ormai classica rassegna di teatro omosessuale Garofano verde, curata da Rodolfo Di Giammarco, giunta alla XX edizione ma alle prese con il mancato finanziamento della Città di Roma per la prossima edizione, quindi a rischio di chiusura.

Il lavoro di Valter Malosti, qualcosa di meno di uno studio e qualcosa di più di una mise en espace, è tratto dal romanzo omonimo di Violette Leduc, pubblicato in Italia prima da Feltrinelli nel ’69 e poi, riaperti i tagli e colmate le epurazioni, da Guanda trent’anni dopo.

Il palco, sobriamente illuminato e spinto fino alla platea, è diviso tra le due attrici: Thérèse legge da un gran libro, come un diario; Isabelle punteggia con brevi battute, unisone a quelle della narratrice-protagonista, e si carica di tutta la partitura fisica, composta di azioni per lo più concentrate e statiche, ordinate tutte sul segmento che unisce una sedia sul fondo a un microfono in proscenio.

Così è la qualità del lavoro: statica e concentrata. L’amore fra le due fanciulle, fin dall’inizio esploso senza poter dilagare, quasi chiuso nel piccolo volume di due corpi, a sua volta li costringe nel lettuccio circondato da cortine, unico anfratto possibile ricavato nella severa notturna quiete delle notti collegiali.
Il movimento dell’amore è un ricercare, un rovistare quasi, uno starsi addosso; il parlare è un sussurro, soffocato dal timore d’essere scoperte dalla sorvegliante. Così che i sensi più luminosi per rischiarare le notti sono i più silenziosi, il gusto e l’olfatto.
In queste costrizioni le due giovani collegiali adolescenti scoprono l’amore e vi si danno completamente, sospese sull’incognita di un futuro che non potranno decidere da sé.

I passi scelti dal libro sono quelli di più bruciante passione, un’antologia del desiderio sentito e in quell’attimo stesso praticato, e talvolta prima praticato che sentito. Inizialmente illustrano come il fastidio e l’odio si scoprano un mascheramento dell’amore; poi come questo amore si faccia, e si rifaccia, e si riveli carne nei rapporti.

Mancando se non una vera partitura strutturale, una compiuta teatralizzazione anche nella “recitazione”, intesa come procedere della materia nel tempo (ma non è tradimento dello spettatore: era annunciato), “Thérèse e Isabelle” è quasi tutto racconto, inteso come procedere della parola nel tempo.

Nonostante il lirismo fin troppo bruciante del testo, che talvolta rischia di rovesciarsi in un compiacimento che goda del furto della parola sulla realtà, turgido dei profumi dei fiori più rari, e dei loro nomi, delle metafore più esorbitanti, la lettura di Isabella Ragonese riesce a mantenersi acuta e piana e, seppure non indocile allo sprigionarsi senza misura delle parole, salda a un principio di controllo, così da risultare tesa nel madore, persino composta nei tropici della sessualità più bruciante.
La sua forma giovane, quasi adolescenziale, le dita delle mani sottilissime, unica concessione al corpo in movimento, sono un contesto (ma niente di più) perfetto, corredo del dorato dono della scrittura che solo chi narra può vantare – Thérèse era il secondo nome della Leduc.
La molteplicità degli abbandoni e il continuo rincorrere sé stessi sui crinali della sensualità sono così contenuti, e la linea narrativa non si perde, mentre la vocalità mezzosopranile di Roberta Lanave, generata in un corpo di più corposa sensualità, rendono Isabelle e i suoi lunghi capelli raccolti, sciolti, ravviati, abbandonati, scissi, traduzione in carne delle parole.

«Non ci lasceremo mai» professano più volte le due amanti durante le loro notti segrete, e si chiedono se sia mai possibile vivere l’una senza l’altra, come se l’amore forsennato fosse alimento indispensabile alla vita, a tal punto da ignorare il problema del riconoscimento e dell’accettazione sociale, con l’urgenza insopprimibile, feroce, del convivere in una continua unione intima e dunque carnale.

Ben presto saranno costrette alla separazione.
«È sempre difficile arrivare a capire quanto sia forte il piacere di stare insieme. Tanto più forte di quello dell’innamoramento» era la sentenza della spettatrice, intempestiva e grave. È tanto tempo, da quando si è stati adolescenti, quando l’innamoramento e lo stare insieme erano lo stesso.

THÉRÈSE ET ISABELLE
di Violette Leduc
regia: Valter Malosti
dal romanzo di Violette Leduc
tradotto da: Adriano Spatola
con Isabella Ragonese e Roberta Lanave
adattamento teatrale di Valter Malosti
suono: G.u.p. Alcaro
luci: Francesco Dell’Elba
coreografia: Lara Guidetti
assistente alla regia: Elena Serra
si ringrazia: Carlo Jansiti
produzione: Teatro di Dioniso
con il sostegno del Sistema Teatro Torino

durata: 60′
applausi del pubblico: 1′ 30”

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 6 giugno 2014

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