Una settimana per Jon Fosse: giovani regie per riscoprire l’autore norvegese

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Barbara Mazzi
Barbara Mazzi, Bruna Rossi e Irene Petris in Suzannah (photo: Riccardo Salari)
Barbara Mazzi, Bruna Rossi e Irene Petris in Suzannah (photo: Riccardo Salari)

In una settimana secca, ecco apparire a Roma un bignami agile agile di Jon Fosse: tre spettacoli al Teatro India, su testi scelti con gran cura, delineano la personalità autoriale del rappresentatissimo autore norvegese, mostrandoci tre differenti lati della sua scrittura. E le tre mani registiche che hanno guidato l’esperienza hanno dimostrato tocchi diversi, approcci personali, sensibilità sceniche indipendenti.

Per Fosse non si sbaglia parlando di “maniera”. Una della antologie dei suoi testi, curata da Rodolfo Di Giammarco, fornisce a un primo sguardo la faccia fisica, tangibile di questa maniera: i testi sono scritti per tronconi che raramente arrivano a metà della pagina, i segni di punteggiatura sono assenti o sostituiti da semplici a capo, la ripetizione delle parole, siano pure semplici pronomi, interiezioni, caratterizza inesorabilmente la pagina. I personaggi di frequente non hanno nomi: sono “l’uomo”, “la donna” e così via; ma persiste non di rado la divisione in atti, o parti, in un numero tradizionale di tre, quattro.

Il primo testo, con la regia di Thea Dellavalle, mette in scena la vecchia Suzannah Thorensen, vedova di Ibsen. Poi la sdoppia, mostrandoci anche la giovane Suzannah, nel ménage matrimoniale con il drammaturgo; e infine la triplica, facendo convivere in scena anche una terza Suzannah, la ragazza giovanissima e innamorata di quell’uomo singolare e sgradevole che doveva essere l’autore di “Casa di bambola”.

Le tre donne (Bruna Rossi, Irene Petris, Barbara Mazzi) intersecano sulla scena i loro tre rispettivi presenti, la disillusione della prima, la quieta accettazione della seconda e il desiderio della terza, abilmente sovrapponendo senza mai intrecciare in un nodo visibilmente problematico le tre esistenze contemporanee.

La regia lascia i tre presenti intatti, non ne intacca la genuinità facendone emergere per contrasto i reciproci condizionamenti. Le tre donne sembrano tre donne diverse, indipendenti, interamente assorbite nell’età della vita che le occupa.

Chi maggiormente ne riesce delineato è il contumace Ibsen. Non grazie a descrizioni – ce ne sono poche, tutte quasi trascurabili. Ma grazie al miracolo della ripetizione: il nome «Ibsen» frequenta la scena senza sosta, rimpianto, evocato, ricordato, chiamato, richiamato o semplicemente nominato, e come per una pioggia battente che uditivamente precipiti in forma, «Ibsen» si palesa nella sua ossessività, nella sua piccolezza, nella suo amore per le serve eppure nella sua incredibile dignità di essere amato.

Il secondo testo, «Io sono il vento», adattamento e regia di Alessandro Greco, è il meno riuscito. La maniera frammentaria e allusiva di Fosse mostra il suo limite: sa dire eludendo, girando attorno alla parola grande coi piccoli passi delle piccole, ma cade, si rivela friabile e impotente se prova a pronunciare distintamente.

Così, pur mantenendo le strutture sintattiche di povertà assoluta degli altri suoi testi, in «Io sono il vento» si parla da subito con una grande metafora nientedimeno che della vita. E la metafora, in cui tutto il testo è risolto, è la più vecchia, la più trita che l’Occidente abbia forgiato e instancabilmente cavalcato: la vita come nave tra i flutti, nel dubbio se gettar l’àncora o sfidare l’ignoto; la paura del mare aperto o la sicurezza della quieta rada.

La scena è una zattera squintata, provvista di piccola stiva per le vettovaglie, e in scena due uomini la governano, ora in collaborazione, ora in contrasto.
In questo clima di tentata allusione, ma scoperto come un segreto di Pulcinella, la recitazione naturalista risulta stucchevole e sentimentale, affossata da una rachitismo di dettato che, come si diceva, non regge alla parola poetica o poeticistica e frana in un futile depositarsi di banalità.

Chiude la rassegna il lavoro più convincente, quell’«Inverno» che sembra incarnare meglio persino di Suzannah lo strumento-parola di Fosse, uno strumento che, nella sua studiata stentatezza senza riuscire (o senza puntare) a delineare universi filosofici della contemporaneità, ad aprire squarci o a significare nichilismi beckettiani, dà per assodati alcuni elementi tecnici chiave del genio irlandese, come l’indeterminatezza della dimensione spazio-temporale, l’assolutezza inconsistente dei personaggi, la fuga completa dalla letteratura in scena intesa come arte del bel dire, o dell’argomentare logico.

Usa quindi questi elementi tecnici per compiere un passo indietro nei confronti dell’“arido vero”, costruendo testi di una quotidiana, garbata, affettuosa, a volte intimamente lagrimevole disperazione: anzi, tristezza.
È questo il passo indietro che preserva Fosse dalla vista di un quale che sia “oltre” rispetto ai dati di fatto, e per il quale si accontenta di mostrarci in modo convincente come un cuore (nordico) è da quei dati di fatto compunto.

L'Inverno di Manna
L’Inverno di Manna

In «Inverno», per esempio, si descrive un innamoramento impossibile e inatteso: ebbene, per quanto a fondo lo si possa guardare, è un innamoramento che, ad onta della situazione singolare in cui nasce e si sviluppa, ad onta persino di un certo alone di tormento interiore, è “simpatico”, accettabile, completamente condivisibile. Tanto che se fosse detto a voce piena sarebbe un film d’amore.
Un uomo e una donna si incontrano in un parco, lei sembra ubriaca, o pazza, all’inizio, e lo costringe a stare con lei, a parlarle. Poi, si trasferiscono in albergo: hanno fatto l’amore, lui ha rinunciato a un appuntamento di lavoro per lei, le ha comprato dei vestiti, e qualcosa da mangiare. Lei sembra pentita, vuole lasciarlo, riesce a farlo a condizione di rivedersi a breve. Ma mancherà all’appuntamento, lui l’attenderà invano, finché, un paio di giorni dopo, torneranno a incontrarsi. Lui la rimprovera, lei gli rivela (forse) di essere una prostituta. Lui di essere sposato, ma che ha lasciato moglie e lavoro per stare con lei. «Non succede così» fa lei, tentando per l’ultima volta di allontanarlo; «Tutto succede così», le risponde, pronunciando l’ultima battuta di un finale di strabiliante efficacia emotiva.

Vincenzo Manna sostituisce l’uomo con una seconda donna, rimettendo apparentemente in discussione tutto il testo, ma riuscendo poi, punto per punto a restituirgli un senso unitario, credibile e vero con le armi di una regia intesa come lavoro di atmosfere e tinte, di interpretazione sul testo e del testo.

Ottimamente rispondono le attrici, Anna Paola Vellaccio e Flaminia Cuzzoli; particolarmente trainante, sicura, efficace, pronta vibrante e sempre in tono, il tono giusto, è la Cuzzoli, che con decisione porta l’operazione «Inverno» in porto: il testo, maneggiato con sicurezza, puntellato dove ne aveva bisogno, lasciato libero di esprimere la sua più autentica vena, consiste in una dolcezza intima, fredda all’apparenza, ma dal cuore caldo e, forse, dolce.

TRITTICO JON FOSSE
SUZANNAH

di Jon Fosse
traduzione di Thea Dellavalle
progetto di Thea Dellavalle e Irene Petris
regia di Thea Dellavalle
con: Bruna Rossi, Irene Petris, Barbara Mazzi
luci: Paolo Pollo Rodighiero
suono: Marco Olivieri
consulenza alla scena: Maurizio Agostinetto
produzione: Il Mulino di Amleto in collaborazione con ATCL



IO SONO IL VENTO

di Jon Fosse
regia, adattamento e scene: Alessandro Greco
con: Giulio Maria Corso e Eugenio Papalia
assistente alla regia e disegno luci: Pietro Seghetti
musica e sound design: Enrico Minaglia
produzione: Morel film in collaborazione con ATCL

INVERNO
di Jon Fosse
traduzione, adattamento e regia: Vincenzo Manna
con: Anna Paola Vellaccio e Flaminia Cuzzoli
produzione: Florian Teatro Stabile di Innovazione in collaborazione con ATCL

Durata: 1h circa ciascuno

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