L’uomo che cammina. Sirna/Delogu nella pineta di Ostia

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Nel settembre 2015, in quel ribollente calderone del Terni Festival, tra le molte proposte una fu folgorante.
Chi era quel gruppetto di “forestieri” che seguiva per le strade del centro, talvolta cuffie alle orecchie, un uomo con cappello?
E lui se ne accorgeva, lo sapeva?
Perché, dopo una serie di incontri non si sa quanto fortuiti, costui li guidava fuori della città, nelle campagne e nei sobborghi circostanti, tra boschetti abbandonati e vecchi fabbricati in rovina, un tempo ritrovi di tossici, su un sentiero che attraversa i binari di una ferrovia dove cade improvviso il passaggio a livello? O, ancora, nel panorama di una piscina pubblica il cui azzurro piastrella cede indulgente al tramonto rosato?

«Lontano dagli occhi, lontano dal cuore». Endrigo soffia improvviso una malinconia prefabbricata ma efficace nel chiostro di un condominio giallastro. Una donna si affaccia, e uno degli immancabili gatti randagi attraversa la strada senza guardare.

Quell’esperienza, riadattata per le topografie di diverse città, quell’“Uomo che cammina”, via di mezzo tra performance itinerante eminentemente site-specific, evocazione delle memorie, delle proiezioni celate nei luoghi, negli spazi che li precedono e nei tempi in cui sono stati e stanno, insomma quell’esperienza deve nutrirsi del materiale che i loro creatori, Valerio Sirna e Leonardo Delogu, raccolgono durante l’organizzazione di passeggiate esplorative che immaginiamo lunghissime.

Come quella sperimentata a fine dicembre, la diciottesima dal 2014 (anno in cui è partito il progetto), nella ormai famigerata Ostia, toponimo da cronaca nera.
Scivolando di un giorno dalla data prevista del 28 per questioni meteorologiche, un gruppetto di camminatori parte dalla stazione di Porta San Paolo sulla linea Roma-Ostia lido, la peggiore d’Italia, secondo il rapporto Pendolaria 2016 di Legambiente.
Si scende alla fermata di Castelfusano.

La camminata non ha caratteristiche di spettacolo, è veramente un lavoro di sguardo e di percezione aperto, senza cornice, puntellato qua e là da alcuni “esercizi” che Delogu e Sirna propongono, e dall’esposizione delle opere di Mattia Cleri Polidori e Giulia Costanza Lanza, legate al paesaggio che scopriremo.

I partecipanti si conoscono già in gran parte tra loro, e chiacchierano sciogliendo la tensione dei chilometri: si parte la mattina alle dieci e si tornerà verso le cinque del pomeriggio. Si cammina e ci si ferma; si va piano, ma non si passeggia.

Lo spazio, a volte tenuto chiuso dai pensieri, convolvendosi in una specie di onda da surf che contraddice la propria direzione, rientra in chi passa; i luoghi riappaiono lunari o domestici. Esploriamo con particolare cura i confini, percorriamo i margini come in equilibrio per saggiarne la tenuta, a tratti inspiegabile, l’essere sutura o contaminazione. Eccoci su ciò che muta lentamente, come lo sguardo che si fa ‘accoglitore’ dell’inatteso o del finalmente visto, e poi su ciò che muta improvvisamente, per una condizione particolare, per un evento fatale.

Nel luglio e nell’agosto scorsi, parte della cosiddetta Pineta di Castel Porziano, che percorre verso l’interno parte del litorale romano, è bruciata. Si tratta di un’area appartenente a una riserva naturale molto estesa, già andata parzialmente distrutta nel 2000. Fortunatamente la porzione maggiore rimane intatta, ed entrare dalla ultra cementificata Ostia in un bosco vero e proprio come questo è facile come scavalcare una soglia.
Più difficile è affrontare quel crinale tra la zona di verdicante pineta e lecceta che le fiamme non hanno toccato e ciò che resta dei quattro ettari distrutti: in questo spazio di passaggio un improvviso autunno si stende su arbusti e alti fusti («I lecci e i pini domestici sono sempreverdi», ci mette in guardia Sirna). Gli alberi rimangono intatti nella loro forma, salvo piegarsi i più sottili, quasi privi di sensi, a terra. E mostrare tutti, alla base, come il segno nero di uno strangolamento: sono morti, crepitanti come carta crespa, tinti di un novembre artificiale. Mentre la terra ai loro piedi sembra indifferente.

Superata questa sorta di terra contesa, siamo nella zona in cui l’incendio ha lavorato meglio, il suo centro. Qui le fiamme sono passate sulla superficie, come rasoi implacabili, a pelle, cancellando ogni elevazione: rimangono monconi quasi a filo del terreno, tenacemente avvinghiati alle profondità della terra, con radici congelate in un ostinato rigor mortis.
Il terreno prova a ributtare ragnatele verdi che percorrono frenetiche la superficie, ormai esposta al sole, abbracciando i cadaveri e i rifiuti di generazioni di gite domenicali: bottiglie, piatti di ceramica e ferro, lattine contorte.

Dove la temperatura ha raggiunto i suoi massimi, annichilendo ogni forma di vita tanto sopra quanto sotto il livello del suolo, lì chiazze nere segnano il territorio. Di tanto in tanto si aprono sotto i piedi percorsi sotterranei: sembrerebbero tane a grappolo, ramificate. Il fuoco ha bruciato attraverso la terra fin le radici dei pini, lasciando cavo lo spazio che occupavano. Continuano a innervarsi, proseguono come le gallerie disabitate di una città fulmineamente invivibile, travolta da un frenetico esodo.

MAMMA ROMA_ Esplorazioni urbane / Pratiche della percezione
progetto di DOM-
a cura di Valerio Sirna
in collaborazione con Leonardo Delogu, Hélène GautierHelene
opere esposte Mattia Cleri Polidori, Giulia Lanza
organizzazione Francesca Agabiti
cucina Eliana Casciato
prodotto da DOM-, PAV, Teatro di Roma – Gli Anelli di Saturno, Estate Romana

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