Ancora una volta Antonio Latella, dopo aver reinventato la Rossella O’Hara di “Via col vento” in “Francamente me ne infischio”, intreccia il suo percorso teatrale con il cinema e con i suoi personaggi femminili.
Incontra, nella peculiarità della sua ricerca drammaturgica, un regista che gli è caro, cioè quel Fassbinder da cui già era nato, nel 2006, “Le lacrime amare di Petra von Kant”.
Stavolta Latella mette in scena Veronika Voss, protagonista del film omonimo, in “Ti regalo la mia morte, Veronika”: lo fa a suo modo, cioè non limitandosi all’adattamento, ma cercando una fedeltà che trasfiguri le istanze estetiche e narrative del film nella sua personale visione teatrale; numerosi sono anche gli inserti originali, scritti da Latella in collaborazione con Federico Bellini.
Diciamo subito che, rispetto alla riflessione sulla O’Hara di “Francamente me ne infischio”, Latella stavolta sembra aver scelto una via più esposta e narrativa: ovviamente rimaniamo di fronte a un teatro difficile, dove la soglia d’attenzione richiesta è altissima; il messaggio verbale, però, ha qui una preminenza che non conosceva nel lavoro precedente.
Veronika Voss è il personaggio che Fassbinder creò ispirandosi a Sybille Schmitz, attrice tedesca molto nota ai tempi del Terzo Reich.
Con le luci di sala ancora accese, Veronika ci si presenta con il corpo e la voce di Monica Piseddu: ha addosso solo un vestito trascurato e una giacca rossa, che si stringe con gesti periodici e nervosi; vuole «ricominciare dal silenzio prima dello spettacolo, per l’ultima volta».
Alle sue spalle c’è una fila di sedie di legno, come nei cinema di una volta. Comincia così la parabola allucinata nel suo passato, da cui emergono nodi di dolore e vergogna, come il suo legame con Goebbels e con la propaganda nazista, e in cui più volte viene evocato Rainer Werner Fassbinder. O dovremmo dire RWF, perché è proprio attraverso le iniziali che più volte Veronika si rivolge al suo regista nel corso dello spettacolo, in bilico tra l’affetto e il rancore.
Un viaggio nella mente screpolata di Veronika, che però c’instrada anche verso le altre donne del cinema fassbinderiano (Maria Braun, Martha…), fino ad incontrarle tutte riunite nel bel quadro che chiude lo spettacolo, quando un ciliegio cala dall’alto (splendida e magniloquente la creazione di Stellato, Di Napoli e Riso) per creare un altrove, nient’affatto consolante, a metà tra le atmosfere di Cechov e la “Colazione sull’erba” di Manet.
Ma Veronika non è sola, sul palco della propria mente. Latella le accosta, ricorrendo a uno stilema già visto nei suoi spettacoli, sei gorilla albini (i mascherati Acca, Franco, Carpio, Kehrberger, Pasquini e Rippa): un coro rispetto a cui Veronika è tutt’altro che una corifea; al contrario, ne subisce la pressione e la direttività.
Ciò è evidente da larghi tratti della prima parte dello spettacolo: la sceneggiatura del film di RWF viene trasformata in meticolosa partitura corale, pronunciata dagli attori-gorilla (che poco a poco si spoglieranno del costume per rivestire altri ruoli) con intensità spesso militaresca, sfruttando perfino le indicazioni di punteggiatura dello script come puntello ritmico; Veronika è così costretta a rivivere quelle che sono, allo stesso tempo, le scene della sua vita e del suo film («Di’ la tua battuta!», le intimano i gorilla).
L’altra figura su cui più hanno lavorato Latella e Bellini è Robert Krohn (interpretato da Annibale Pavone, uno dei collaboratori più di lungo corso di Latella), che come nel film di Fassbinder è un giornalista sportivo – si presenta al pubblico con le sue telecronache delle corse di cavalli – ammaliato dall’ex diva: cerca di salvarla dal progressivo abbandono alla morfina, che le viene somministrata in dosi abbondanti da una clinica compiacente e da una neurologa intenzionata ad arricchirsi grazie alla sua dipendenza (la raccapricciante dottoressa Katz, alias Estelle Franco).
La penna di Latella e Bellini posiziona Krohn in platea, seduto tra il pubblico; soltanto nell’ultima parte dello spettacolo viene invitato a salire sul palco: intervenire in soccorso di Veronika Voss, per salvarla dall’oblio della clinica, significa accettare il rischio di entrare nella drammaturgia, ma anche, per il doppio filo teatro-cinema tessuto da Latella, nella pellicola.
La riflessione pirandelliana sul rapporto tra realtà e finzione, insomma, si dirama da Veronika (che rimane impigliata su due piani: tra i ricordi e le allucinazioni della droga; tra il suo statuto d’attrice e il suo statuto di personaggio, subendo in entrambi i casi l’ombra di RWF, perché «cambiano i ruoli ma la voce è sempre la stessa. È e sarà sempre quella del regista») fino ai personaggi secondari, assumendo centralità drammaturgica.
Insieme alla protagonista scivoliamo lungo il viale del tramonto, mentre il linguaggio scenico ci trasmette la sua alterazione cognitiva alternando scene messe a fuoco con altre in cui logicità e temporalità si sgranano; la continuità, però, è data dalla solita incredibile cura di Latella per il montaggio ritmico dei dettagli, per i gesti collaterali al fuoco scenico, per l’uso dei costumi. La regola aurea è quella di non sprecare qualsiasi elemento occupi la scena, neppure il più piccolo.
Attenzione, però. Il regista non ci consegna questa partitura mirando a compensare il dolore di Veronika con un sottovoce d’armonia: al contrario, è come se la pletora di dettagli verbali e iconici orchestrati da Latella arrivasse ad essere un solo corpo dimidiato, manomesso, dissonante: proprio come la psiche di Veronika. E come la morfina costringe la mente della donna alla trappola del passato, così anche l’immagine cinematografica sembra coartata dal verbale: le scene del film di Fassbinder possono essere soltanto evocate, descritte, e non riproposte, imitate visivamente. Un distacco che diventa anche, per gli attori, strategia recitativa antinaturalistica (tanto per confermare l’imprinting pirandelliano della pièce), con l’eccezione fondamentale della Piseddu, in solitudine anche da questo punto di vista: la sua è una grande prova, soprattutto nel lavoro sulla mimica facciale, qui forse scontata vista l’ispirazione cinematografica, ma che non di rado nel teatro contemporaneo è messa in secondo piano.
Ciò nonostante, non si può dire di trovarsi di fronte al miglior Latella: per quanto la sua lettura di Fassbinder abbia il merito – come dichiara lo stesso regista – di liberare l’autore dall’etichetta di trasgressivo, riscoprendolo piuttosto nella sua moderna classicità, la sensazione è che in “Ti regalo la mia morte, Veronika” l’urgenza stagni a lungo nel formalismo.
Chiudiamo con una notazione di (mal)costume. Una componente non secondaria della messa in scena che abbiamo visto è stata la continuazione delle schermaglie tra Latella e una parte del pubblico del Teatro Argentina, dopo le polemiche con cui era stato accolto il “Natale a casa Cupiello” dello scorso anno: è un dato senz’altro contingente e legato al contesto, ma molto utile a leggere in filigrana il piglio dello spettacolo e certi suoi provocatori non detti.
Da alcune annoiate poltroncine rosse arrivano infatti provocazioni e battutine, come da una qualsiasi scolaresca in gita coatta a teatro: soltanto che qui non ci sono jeans, e gli zigomi si sono arresi da tempo alla forza di gravità, contro cui la nobiltà del guardaroba è con evidenza ancora impotente.
Gli attori non si fanno turbare, anche perché alcune scene sembrano pensate appositamente per provocare un certo tipo di pubblico (vedi la pausa di assoluto silenzio, lunga almeno un paio di minuti, durante cui Veronika si rolla e fuma in tutta calma una sigaretta; ma l’antifona era chiara già nel monologo iniziale, quando Latella e Bellini fanno dire alla Piseddu, rivolta non solo al suo pubblico immaginario, «non avete letto neppure le note di regia»). In ogni caso, bene ha fatto Antonio Calbi a riproporre – con i suoi pregi e difetti – Latella, mostrando come sia possibile per un direttore artistico esercitare il ruolo stimolando il proprio pubblico a crescere, a interrogarsi, o almeno a reagire in modo costruttivo alle provocazioni, invece di limitarsi – come fanno i più – ad assecondarne passivamente i gusti.
A Roma fino al 14 febbraio.
Ti regalo la mia morte, Veronika
traduzione e adattamento di Antonio Latella e Federico Bellini
tratto dal film Veronika Voss
di Rainer Werner Fassbinder
regia Antonio Latella
con Monica Piseddu (Veronika Voss)
e in o.a.: Valentina Acca (Henriette / Margot), Massimo Arbarello (ombre), Fabio Bellitti (ombre), Caterina Carpio (Grete / Maria), Sebastiano Di Bella (ombre), Estelle Franco (Dottoressa Katz / Martha), Nicole Kehrberger (Josepha / Emma), Fabio Pasquini (Capo – Coro, Ebreo, Regista), Annibale Pavone (Robert Krohn), Maurizio Rippa (Capo Polizia / Elvira)
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
Utilizzo della sceneggiatura Die Sehnsucht der Veronika Voss di Peter Märthesheimer e Pea Fröhlich, da una bozza di Rainer Werner Fassbinder, per gentile concessione della Fondazione Rainer Werner Fassbinder – Berlino e di Verlag der Autoren – Francoforte sul Meno / Germania.”
“Per gentile concessione di Arcadia & Ricono Srl a socio unico, via dei Fienaroli, 40 – 00153 Roma – Italy”
durata: 2h
applausi del pubblico: 120’’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 4 febbraio 2016