Il lavoro di scouting del Network Anticorpi XL fa emergere tanti nomi nuovi, da Alessandra Ruggeri ed Eliana Stragapede al Collettivo Macula
Dal 12 al 14 settembre siamo tornati ancora una volta a Ravenna, e con grande curiosità, per la nuova edizione della Vetrina della Giovane Danza d’Autore, la piattaforma nazionale che segue le nuove generazioni di artisti e artiste della danza autoriale contemporanea del nostro Paese. L’evento si è tenuto come di consueto nell’ambito del più ampio e diversificato festival Ammutinamenti, quest’anno giunto alla ventiseiesima edizione.
Siamo riusciti ad assistere, fra il Teatro Rasi, le Artificerie Almagià, la fondazione Sabe e piazza Kennedy, alle creazioni di 15 tra autori ed autrici, scelti dopo una lunga selezione effettuata tramite una call nazionale dai partner del Network Anticorpi XL, la rete italiana dedicata alla promozione della giovane danza d’autore, che conta ad oggi ben 41 partner in 17 regioni.
Un’edizione come sempre proficua di nuove e importanti visioni anche quella 2024, a tratti iniettate, giustamente – essendo all’inizio del percorso dei giovani artisti -, di ingenuità o di sperimentazioni troppo insistite, che perfino lo spettatore più allenato può faticare a comprendere o reggere; nel contempo abbiamo incrociato anche percorsi già ampiamente attraversati ma, dobbiamo ammettere, sempre affrontati con grande professionalità, attraverso suggestioni spesso originali e inconsuete.
Davanti a noi si è dunque palesato un panorama interessante e diversificato di creazioni autoriali con otto assoli, cinque duetti e due trii.
Non riuscendo a indagare tutte le performance, ci soffermiamo su quelle che hanno offerto a chi scrive i maggiori stimoli di approfondimento, tenendo conto che molte di queste sono solo ancora creazioni in progress.
Di grande interesse ci è parso, non solo per l’inconsueto progetto ma anche per l’eccellenza della danza proposta sul palco da Sandra Salietti Aguilera e Hélias Dorvault, “I have seen that face before”, del coreografo Giovanni Insaudo.
Il “pezzo” non solo esplora il delicato istante tra la fine di una performance e il ritorno dei danzatori sul palco con l’incontro con il pubblico, ma al contempo analizza, attraverso delle immagini, l’essenza e gli atteggiamenti multiformi che il nostro corpo assume nelle varie situazioni che la vita ci offre. Il tutto è accompagnato da un tappeto musicale coinvolgente e dalle luci intensamente espressive dello stesso Insaudo.
Abbiamo trovato di grande forza immaginativa ed efficace resa scenica anche “AGiTA- Il corpo elettrico”, dove quello della coreografa e danzatrice Mariagiulia Serantoni si offre a una congerie di suoni, musiche e rumori sempre più potenti che, per 45 minuti (qua e là con momenti che, secondo noi, potrebbero essere anche sfoltiti) la posseggono, e che vengono proposti anche vocalmente con posture sempre diverse.
Ogni movimento, ogni segno qualificante dei propri gesti, viene posto in scena dalla performer sempre con esemplare capacità di possesso delle potenzialità espressive del corpo, capace di farci percepire l’entità e le diverse movenze che lo posseggono.
Interessante, fra danza e teatro, anche se percorso da qualche ingenità nel loro collegamento, il lavoro di Alessandra Ruggeri “HÀ-BI-TUS”, che indaga in modo gioioso il tema dell’identità.
Anya e Kyda Pozza, dalla chioma arruffata che le fa sembrare identiche, giocano con ampi stracci multicolori, camuffandosi come un unico essere, attraverso echi che rimandano al teatro di figura, finché non decidono di staccarsi. Da lì inizia il gioco di crearsi ognuna una propria identità, per differenziarla dall’altra, sino a che una di loro, pur trattenuta dall’altra, si spoglierà del tutto, conquistando la sua autonomia, e infine andandosene.
In orario da aperitivo, piazza Kennedy ha accolto invece una performance davvero ricca di spunti interessanti, che avevamo già visto in un altro contesto: parliamo di “Swan”, del giovane coreografo Gaetano Palermo. Il progetto si ispira all’assolo “La morte del cigno” che Michel Fokine costruì per Anna Pavlova nel 1901.
Qui Rita Di Leo volteggia sicura sui pattini, tra la gente che la guarda, mentre ascolta musiche dalle cuffie e si riprende con il proprio cellulare, finché uno sparo che si ripete con insistenza non la fa cadere a più riprese.
La danza, connettendosi con il teatro e lo sport, si presenta con un continuo cadere e rialzarsi, al quale il pubblico non partecipa, può guardare soltanto, provando tuttavia, quando la maschera le cadrà mostrandone il vero, “sfatto”, aspetto nascosto, empatia con ciò che le sta succedendo.
Nel contesto di Ravenna, in una dimensione diversa dalla precedente vista a Bologna, questo senso di spaesamento costruito tra la gente e non in uno spazio libero, con uno spettatore che riprende con lo smartphone che la performer gli ha dato, ci è parso ancor più potente.
Eccoci poi davanti al coreografo Claudio Larena, autore che già conoscevamo sia in ambito teatrale con “Calcinacci”, visto a Direction Under 30, sia in quello coreutico al festival Inequilibrio con “Lena” mentre dialogava con alcune altalene.
A Ravenna ha presentato l’interessante “Spint (Quasi caduta)”, una performance che nasce da un’indagine attorno all’ambiguità del gesto della spinta, che in scena, per mezzo di altre due performer, Elena Bastogi e Giulia Cannas, propone nuove suggestioni in termini relazionali, individuali e fisiche.
Il lavoro è ancora in formazione e ci piacerebbe che alla fine diventasse una vera e articolata coreografia musicale, ridonando nuova linfa al già curioso e stimolante progetto.
Alla Vetrina abbiamo apprezzato anche due performance che indagano il rapporto di coppia: “Amelia” del Collettivo Macula, formato da Priscilla Pizziol ed Edoardo Sgambato, e “AMAE” di Eliana Stragapede.
Nel primo la danza, in modo melanconico, abita una semplice sedia, rimembrando attraverso la danza della coppia in scena vissuti condivisi, ricordi di gioia e dolore, ora forse lontani, che improvvisamente tornano presenti alla memoria.
“AMAE” invece, vede sul palco, insieme all’autrice, anche il performer Borna Babic. Attraverso una danza sempre congrua, il brano si interroga sul bisogno di due corpi diversi di stare insieme, indagando sui sentimenti che li attraversano, ora di attrazione partecipata, ora di accettazione passiva, in un groviglio di suggestioni che si rincorrono.
Mariangela Di Santo (in scena con Giacomo Graziosi e Carmine Dipace) in “Klore”, partendo dalla tarantella – di cui tuttavia non ci pare di aver percepito davvero l’essenza -, intende immettere nella contemporaneità le proprie radici popolari.
Per far questo i tre performer, provenienti dalla Paolo Grassi di Milano, si muovono sul palco seguendo uno schema di regole precise, anche attraverso un efficace gioco di luci che ne regola i movimenti, in un susseguirsi di figure geometriche ben costruite che accompagnano lo sguardo dello spettatore.
Molto particolare e di suggestiva consistenza, infine, l’ultima performance, quella di Simone Lorenzo Benini, in scena con Miriam Budzáková, vista alle Artificerie Almagià.
“E poi entrarono i cinghiali” è capace, nella sua esagerata e volutamente sguaiata messa in scena, di coniugare con forza, ironia ed ostentata fierezza la propria arte e la fatica nel portarla avanti.
Il progetto si mostra alla fine come un vero e proprio urlo, liberatorio, dell’artista nell’affermare la propria dignità di autore, spesso troppe volte sminuita o mistificata.
I due performer, cosparsi di luccicanti paillettes, sempre in stretto contatto con il pubblico che guardano negli occhi, chiedendo complicità, vengono accompagnati da segni sonori sempre diversi, anche di natura pop, come il sempre coinvolgente “Con te partirò” di Andrea Bocelli.
Anche quest’anno, complessivamente, un’ottima edizione della Vetrina, che ha proposto un nucleo di autori, molti dei quali vedremo senz’altro in scena in altri importanti contesti dedicati alla danza.