Noi che abbiamo vissuto le nostre vite di nuovo. Mattias Andersson alla Biennale Teatro

Photo: Ola Kjelbye
Photo: Ola Kjelbye

Il direttore del Dramaten di Stoccolma ospite al 51° Festival del Teatro di Venezia

Cosa faresti se ti fosse data una seconda possibilità di rivivere la tua vita?

E’ una domanda secca, che richiede la pausa di un sospiro. La domanda sta lì, a chiare lettere sullo schermo davanti agli occhi degli spettatori. Sembra una domanda giocosa, ma non lo è, non del tutto.

Lo schermo, sostenuto a qualche metro d’altezza da due pali come se fosse la rete di un campo da gioco, divide in due lo spazio scenico del Teatro alle Tese. Nei due lati del campo il pubblico si fronteggia seduto sulle gradinate, ogni platea ha la sua visuale e il suo lato dello schermo. A bordo campo c’è qualche sedia sparsa, e qualche posto vuoto nelle prime file delle gradinate, dove a turno siederanno i performer, pronti a raccogliere e a passarsi la “palla”, rilanciandola nelle due metà campo attraverso memorie, vissuti, ipotesi, sogni, nuove domande, o solo attraverso il movimento danzato.

Il campo di gioco è quello di Mattias Andersson, regista e autore (premiato con un Ibsen nel 2007) ed ex direttore del Backa Teater di Göteborg, dal 2020 direttore del Dramaten, il Teatro Reale di Stoccolma, dove ha portato una ventata di novità con “il suo metodo di ricerca sociale fondato su indagini documentarie e ricerche sul campo”.

A lui si deve “We Who Lived Our Lives Over” (“Noi che abbiamo vissuto le nostre vite di nuovo”), andato in scena durante il 51° Festival Internazionale del Teatro di Venezia.

Uno spettacolo indagine, o meglio partito da un’indagine sociologica condotta dal regista e dalla compagnia in Svezia, su un gruppo di persone di differenti età, e precipitato in una drammaturgia originale. A tutti i 137 intervistati è stata posta la stessa domanda: cosa faresti se ti fosse data una seconda possibilità di rivivere la tua vita?
Una domanda innocua per alcuni degli intervistati, a cui hanno risposto facilmente, con leggerezza: “Seguire un corso di lingua francese anziché tedesca alle scuole superiori”, “mi sarebbe piaciuto suonare uno strumento”… Per altri un grimaldello invadente e respingente: uno schiaffo in faccia nel momento in cui ci si immerge nel sogno di ciò che avrebbe potuto essere, ma non è stato. E un fardello ancor più dolente nel momento in cui viene preso a braccetto dal nietzschiano “eterno ritorno dell’uguale”, che fa volar via ogni speranza: un’altra vita non ci sarà.

Ecco allora perché il teatro.

A turno i nove attori in scena – portavoce e corpo degli intervistati – sviscerano eredità, conflitti, pentimenti, violenze, inganni, impossibilità, nuove domande a cui aggrapparsi: cosa avrei potuto fare? Sarei stato in grado di agire diversamente? Chi e cosa sarei diventato oggi se…? E se non avessi sposato…? E se non fossi partito per…? E se gli avessi detto ti amo?
Storie diverse, con alcuni comuni denominatori che, risuonando e rispecchiandosi le une sulle altre, diventano un racconto polifonico, le storie di molti.

Il tempo scorre avanti e indietro, e si crea parallelamente anche un’altra dimensione: la dimensione del “se” ipotetico e infinito, che trova nel mezzo teatrale il “campo” eletto dove agire percorsi e vite alternative, difatti il titolo afferma “Noi che abbiamo vissuto le nostre vite di nuovo”: e dove, questa possibilità, se non in teatro? Ma anche uno spazio dove ri-conoscersi e disconoscersi, uno spazio di ri-pensamento e di rimessa in dialogo di ciò che, nel bene e nel male, ci ha plasmato.

Come si diceva all’inizio i campi di gioco sono due: il presente e il passato, la realtà e l’utopia, il pentimento e l’accettazione, la disperazione e la consapevolezza che siamo la somma di scelte amiche e di scelte nemiche.
E se da una parte c’è la voce e la parola, dall’altra c’è il corpo e la danza. Il biglietto da visita di ogni performer è un movimento coreografato, un compendio di gestualità e tic nervosi, di passi e movimenti leggiadri, fantasiosi, nostalgici, vitali. Una danza sinestetica che afferra ciò che comune non è: se “nulla due volte accade”, come scriveva Szymborska, ognuno – con la propria danza – assume un vivace colore, la propria singolarità.

VI SOM FICK LEVA OM VÅRA LIV
(We Who Lived Our Lives Over)
Di Mattias Andersson
Con: Adel Darwish, Ylva Gallon, Electra Hallman, Rasmus Lindgren, Marie Richardson, Magnus Roosmann, Nemanja Stojanović, Kjell Wilhelmsen, Nina Zanjani
comparse: Antonella De Luigi, Magda Pattarello, Alfredo Popolizio
costumi:Maja Kall
coreografia: Cecilia Milocco
luci:Charlie Åström
suono e musica:Jonas Redig
trucco:Josefin Ekerås
dramaturg:Stefan Åkesson, Irena Kraus
produzione:Backa Teater / Dramaten – The Royal Dramatic Theatre

durata: 2h 30′

Visto a Venezia, Teatro alle Tese, il 22 giugno 2023

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