Sì, non possiamo: Forsythe fa i conti col “fallimento”

Yes we can't
Yes we can't
Yes we can’t (photo: theforsythecompany.com)

Frutto di una sperimentazione geniale, ardita e infaticabile, il lavoro di William Forsythe costringe inevitabilmente a una riflessione che va oltre i limiti della singola occorrenza artistica, e che induce a chiedersi da dove prenda le mosse un’attività creativa così sfaccettata, multimediale e difficilmente catalogabile come quella del coreografo americano.

Alla base di un percorso artistico in cui la danza “pura” interagisce con l’installazione, le arti visive e le nuove tecnologie, si colloca una ricerca, incredibilmente rigorosa e all’apparenza inafferrabile, sulla coreografia come autentica scienza del movimento, sorretta da principi compositivi ben definiti e da indagare, manipolare e alterare all’estremo, spingendosi sempre oltre nell’elaborazione del movimento corporeo.

E’ proprio sul corpo del performer e sulle sue possibilità d’azione che si concentra “Yes we can’t”, spettacolo presentato in prima italiana al Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia dalla The Forsythe Company, complesso artistico nato nel 2005 all’indomani della chiusura del Ballett Frankfurt di cui Forsythe era direttore dal 1984.

Ben lungi dal parafrasare il celebre slogan elettorale di Barack Obama, l’espressione “Yes we can’t” (Si, non possiamo), tratta dalla novella “Worstward Ho” (1984) di Samuel Beckett, ha spinto la compagnia, che viene menzionata come coautrice del lavoro insieme allo stesso Forsythe, a riflettere attorno al tema dell’“insostenibilità” e del “fallimento” a teatro: cosa non è ammesso a teatro? Cosa non è tollerabile vedere? E soprattutto, fino a che punto i danzatori sono in grado di agire in scena senza sbagliare? Quando il tentativo di approssimarsi alla perfezione si rovescia in un fallimento?

L’idea dell’errore, che insidia e, forse, fonda l’azione scenica anche degli artisti più esperti e allenati, costituisce così un vero e proprio filo rosso che tiene unita una partitura elettrica, frenetica e dissennata di movimento, musica (l’intero spettacolo si serve della partitura pianistica eseguita dal vivo dal compositore David Morrow), parole e sonorità vocali emesse dagli stessi interpreti.
I danzatori, infatti, sono chiamati a mettersi in gioco attingendo a tutte le proprie capacità per dar forma a uno spettacolo che si struttura come una serie di inizi, tentativi di costruzione di un’azione compiuta e fallimenti, seguiti dalle esilaranti scuse pronunciate dagli artisti in un italiano strepitosamente maccheronico.
Rigore assoluto e stupefacente nonsense, logica compositiva serrata ai limiti del formalismo e sfondamento di qualsiasi norma d’azione si intrecciano in una vertigine di movimento danzato, gestualità quasi sempre ridicola, insensata ed eccessiva, canto e voce, il tutto nell’intento dichiarato di non seguire alcuna coerenza di “significato”, ma di procedere sull’onda del leitmotiv: “Ma che cazzo stiamo facendo?”.

Da autentico “scienziato” del movimento Forsythe dimostra una strepitosa sapienza compositiva nel momento in cui riesce a mettere in relazione linguaggi diversi (danza, musica, parola e canto) sottoponendoli agli stessi rigorosi principi di costruzione (validi, dunque, per la musica come per la danza e la parola) e inserendoli all’interno in una partitura in cui davvero tutto sembra possibile. E’ così che i danzatori, secondo una sorta di implacabile e folle regola del gioco, devono riuscire a “sbagliare” come meglio possono, adottando comportamenti ridicoli e assurdi senza però cadere mai nella parodia stessa dell’errore: ogni azione, infatti, va compiuta con la più assoluta e dedita convinzione, anche se si tratta di piroettare con indosso mutandoni paillettati, intonare strampalate e demenziali arie d’opera, lanciarsi in una sequela di discorsi deliranti o interpretare “pas de deux” melodrammatici e sciancati.

Quel fallimento che ci viene presentato dapprima come radicato in qualsiasi manifestazione spettacolare (perché tutti, anche le più grandi étoile, possono sbagliare) sfocia quasi nel suo opposto, nel collaudo perfetto, nell’accertato funzionamento del dispositivo scenico e drammaturgico. Nel momento in cui lo spettacolo insinua dei dubbi sull’intangibile perfezione dell’opera d’arte e dell’interpretazione, eccolo affermare il conseguimento di una riuscita straordinaria, ottenuta attraverso il filtro acido di un’intelligenza coreografica fuori dal comune.
Non c’è dunque da stupirsi se l’imitazione di un atto masturbatorio vada a braccetto con le citazioni della “Morte del cigno”: è uno sfregio beffardo e terribilmente serio al tempo stesso, il graffio del genio che sembra prenderti in giro quando invece sta prendendosi gioco solo di se stesso.

YES, WE CAN’T
una creazione di William Forsythe e i danzatori della Forsythe Company
musica composta e interpretata da David Morrow
luci: Ulf Naumann, Tanja Rühl
costumi: Dorothee Merg
durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 5’

Visto a Reggio Emilia, Teatro Romolo Valli, il 14 aprile 2012
Prima italiana

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