“È questo dunque l’Inferno? Non lo avrei mai creduto. Vi ricordate? Il solfo, il rogo, la graticola…buffonate! Nessun bisogno di graticole; l’Inferno, sono gli Altri”.
Così scriveva Sartre ne “La Porta Chiusa”, pièce in un atto composta nell’autunno del 1943.
Questo potrebbe essere il sotterraneo e potente fil rouge di spettacoli come “Bounce”, “Caino e Abele”, “The Basement” e “Ali”, alcuni dei titoli proposti dal cartellone di questa seconda edizione di Y Generation Festival, rassegna promossa dal Centro Santa Chiara di Trento, che punta ad indagare il linguaggio della danza e del teatro danza per le nuove generazioni.
Nessuna censura, dunque, al pessimismo nichilista per i minori di quattordici anni. E per fortuna, poiché non si tratta che di un miraggio della superficie, inteso a trasmettere una verità molto più profonda, alla portata di ogni fascia d’età: nessuno si salva da solo o, come diceva il poeta John Donne, “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso”.
Il motivo delle relazioni interpersonali non è declinato solo nel linguaggio della danza, che ne rappresenta l’insidiosa violenza e la parallela imprescindibilità, ma anche dai numerosi laboratori e tavoli di discussione che animano le giornate di una rassegna che quest’anno ha scelto di partire programmaticamente dalla parola “dialogo”.
Uno dei meriti di questo festival è infatti un forte interesse per l’autoriflessione, ovvero per l’indagine dei meccanismi di produzione e ricezione, analizzati attraverso molteplici occasioni di confronto fra artisti, operatori del settore e spettatori, affinché possano ripensare insieme modalità di creazione e promozione del prodotto artistico.
Alcune delle domande più suggestive emerse, in particolare, dal gruppo di lavoro “In punta di pagina” – sul tema dei rapporti fra danza e letteratura per l’infanzia, e sulla complessa transizione dalla bidimensionalità dell’arte visiva e della parola alla tridimensionalità scenica del movimento – riguardano il rischio di banalizzazione o riduzionismo: la danza – e più in generale l’arte – per bambini e ragazzi è una semplificazione? Richiede, cioè, un linguaggio o un approccio diversi rispetto alla cosiddetta arte “reale”, “vera” o “seria”? Deve porsi un fine primariamente pedagogico o di puro intrattenimento? Fino a che punto può provocare? Deve essere asservita a una storia, a una strategia narrativa, o può osare anche l’estetica più astratta e concettuale? La danza deve sempre raccontare? Deve elaborare e palesare un contenuto tematico? Insomma, come trattare la categoria del giovane pubblico, etichetta all’interno della quale occorre saper distinguere diverse fasce di età e differenti esigenze di senso? Distinguere o tenere insieme arte per i giovani e arte per gli adulti?
Sono questi dilemmi che affliggono anche chi si trova a dover parlare di spettacoli che, pur proponendosi per un determinato target di pubblico, posseggono il potenziale di rivolgersi trasversalmente a ogni età.
È il caso di “Bounce!”, produzione dei francesi Arcosm, che affrontano con ironia l’esperienza del fallimento e traducono in danza la complessità delle dinamiche psichiche coinvolte.
Dostoevskij, nei suoi “Ricordi dal Sottosuolo”, esponeva una curiosa teoria anti-teleologica sull’innata tendenza umana all’autosabotaggio: “Un’istintiva paura di raggiungere lo scopo e di completare la costruzione dell’edificio. […] L’uomo…come un giocatore di scacchi, è attratto soltanto dal processo che tende al raggiungimento dello scopo, e non dallo scopo stesso. […] Il fatto è che egli sente che quando avrà trovato non ci sarà più nulla da cercare”.
Al centro del palco si erge il medesimo edificio, un massiccio cubo ligneo che pare richiamare il misterioso monolite kubrikiano di “2001: Odissea nello spazio”. E quella della compagnia Arcosm è in fondo un’altra poderosa Epica dello Sforzo (sovr)umano per superare il limite. L’ostacolo è visibile, eretto com’è in tutta la sua muta indifferenza, pronto a sopportare lo schianto di uno dei ballerini, che travolge nel suo barcollare stordito quinte, paraventi ed anche il duo di eleganti musicisti. Un grottesco “Tutti giù per terra” che, con riuscito effetto di straniamento, stupisce il pubblico. La caduta si ripeterà identica più volte, mentre i ballerini sembrano accorgersi solo progessivamente dell'”elefante nella stanza”, ovvero della scatola e delle crescenti risate del pubblico.
I quattro elementi, come falene impazzzite intrappolate in una sorta di diabolico carillon mosso da un’imponderabile coazione a ripetere, ruotano e rimbalzano (da cui il titolo dell’opera) attorno alla box, percuotendola e congetturando sulla sua natura e sul modo di liberarsene. Il cubo, esoterico magnete, attira e respinge i danzatori, impegnati come tanti Sisifo nel tentativo vano di spostare il masso, di sfondarlo o di raggiungerne la vetta.
Pregio della performance è il continuo evolversi dell’azione, che gioca su ripetizione e variazione, intercalando alla danza assoli di violino, lirici brani di canto, balbettii al microfono che diventano beat-making in stile rap, o ancora spasmodici conti alla rovescia che, con assordanti allarmi, inducono ogni individuo al disperato quanto vano tentativo di raggiungere il traguardo da solo.
Ebbri assoli sono alternati a figure di coppia o di insieme, che danno vita a quadri originali, come l’isterica risata di gruppo che si muta in una precisa coreografia di tic motori e contorsioni tourettiane dal ritmo sincopato, fino al plot-twist distopico: i quattro ballerini capiscono che le loro stesse voci provengono dall’interno della scatola, che torna dunque ad essere il fulcro dell’attenzione e di rinnovati, estenuati, tentativi di scalarla. Gesti abortiti in partenza, per incarnare un’idea di fallimento che ha la forma di un piano inclinato sul quale non si può fare a meno di scivolare, o di una porta a cui si bussa inascoltati.
E anche quando una delle danzatrici riuscirà finalmente a guadagnarne l’agognata cima, pavoneggiandosi esultante di fronte ai perdenti rimasti a terra, si ritroverà sola, divorata dall’oscurità, presto costretta a ridiscendere per risvegliare negli arresi l’ambizione all’ascesa.
La problematica dialettica fra l’io e l’altro è protagonista anche dello spettacolo “Caino e Abele” della Compagnia Rodisio/TAK Theater Liechtenstein.
L’intenzione degli artisti è quella di reinterpretare il mito biblico in chiave contemporanea, spogliandolo delle sue connotazioni religiose attraverso il linguaggio della break dance, con tutto il suo retroterra di contestazione giovanile, per rappresentare l’intrinseca e irridemibile conflittualità che pervade i rapporti sociali e familiari.
La compagnia Rodisio riattualizza così le figure di Caino e Abele per dar corpo a una riflessione su bene e male, una meditazione sulla labilità del confine fra amore e odio, vittoria e sconfitta, che si interroga sul libero arbitrio e su quelle pulsioni barbariche che la civiltà tende a reprimere e ad addomesticare.
Il motivo della faida tra fratelli e del fratricidio è uno dei più antichi del mondo e proprio a questa sua radice archetipica si richiama la carrellata di immagini proiettate in apertura: dal graffitismo di Basquiat all’art brut dei pazienti psichiatrici, dall’esotico primitivismo dell’art nègre, sino al cubismo e all’espressionismo alla Nolde o Kirchner.
La performance opta per una ibridazione postmoderna di generi e tecniche viziata forse da un’eccessiva smania esplicativa e da un moralismo a tratti didascalico e retorico. Ma è pur vero che, in questo caso, è forse necessario rendere manifesto il target per cui il lavoro è stato pensato: i bambini dagli 8 anni.
La coreografia, che alterna i classici spin a più acrobatici powermove, si articola sulle figure della sfida e dello sconfinamento, strutturate secondo un climax di schermaglie ed esibizionismi continui che conducono alla fatale prova finale: il duello a colpi di Uptown Funk che incorona Abele vincitore e lo decreta al contempo vittima sacrificale del rancore e della furia di Caino. Le luci accecano per una frazione di secondo il pubblico, velando l’efferato omicidio, mentre, sulle note di “The sound of silence” di Simon & Garfunkel, Caino comprende la tragedia cui si è condannato: il pentimento, ovvero la punizione di “vivere e ricordare” il peccato commesso.
Per il drammaturgo svedese August Strindberg, che non credeva affatto nella colpa originaria dell’umanità ma professava comunque una convinta teologia negativa, la Terra non era che un inferno, “un carcere eretto con intelligenza superiore, dove non si può muovere passo senza ferire la gioia altrui e dove il prossimo non può essere felice senza farci del male”.
Ci si ferisce inevitabilmente a vicenda ma non si può fare a meno gli uni degli altri, ed ogni contatto può trasformarsi in un impatto potenzialmente letale: questo sembra essere il motore dello spettacolo “The Basement – Don’t touch me”, co-produzione del Theater Strahl di Berlino e della compagnia De Dansers di Utrecht.
Quattro danzatori, accompagnati dalle esecuzioni live del gruppo musicale indie-folck La Corneille, trasformano il palco di un seminterrato in un ring dove, fra contact improvisation e capoeira, si snoda una coreografia dal ritmo accelerato e febbrile, caratterizzata da un disegno “sporco” che subito frastorna lo spettatore: prese, evoluzioni acrobatiche, corpi a corpo, corse in scena, salti, rotolamenti, capriole e spinte, scandite dal sound martellante di chitarra elettrica e batteria.
I ballerini manipolano i corpi gli uni degli altri, sfruttando le reciproche rigidità di movimento, tentando di volta in volta di sciogliere il rigor mortis del partner, di fare breccia nelle barricate delle sue resistenze emotive.
Il main theme pare essere quello della lotta, di una rissa costituita di continue micro-collisioni, che restituiscono l’impressione complessiva di un caos entropico, di uno sciame di autismi che danzano insieme. Fra un agguato e l’altro, mentre ci si solleva ed atterra al suolo a turno, per poche frazioni di secondo i ballerini si cristallizzano in manichini, come pietrificati dallo Sguardo di Medusa dell’Altro. Ognuno impone la propria presenza fisica con violenza, afferrando il compagno per poi subito rifuggirlo, lasciando la presa quando l’altro meno se lo aspetta o cercando di anticiparne e schivarne mosse e avvicinamenti.
Ogni equilibrio si dissolve pochi attimi dopo essere stato raggiunto, ad indicare la precarietà e la schizofrenia delle relazioni interpersonali, qui interpretate come dispositivi sadici di potere e prevaricazione (evidenti quelli dell’uomo sulla donna), di inevitabile complementarità di ruoli attivi e passivi, in cui ci si alterna costantemente nelle parti di vittime e carnefici, dominati e dominatori.
Si desidera l’Altro solo quando questi ci respinge, e una volta ottenuto il suo abbraccio, ce ne sentiamo subito soffocare.
L’amore, infatti, come già intuito da Rodisio in “Caino e Abele”, talvolta può mancare il proprio bersaglio o volgersi nel proprio contrario, ed è così che “The Basement”, senza alcuna contraddizione, cala il sipario sui malinconici e paradossali versi dei La Corneille, che cantano “I was in love with you and I shot you down”.
Su questo filo Y Generation arriva alla sua ultima giornata presentando “Ali”, produzione Teatro La Ribalta/Accademia Arte della Diversità, variazione dell’omonimo spettacolo del 1993, vincitore del premio ETIstregagatto nel 1995.
La storia, dal sapore di arcana parabola sapienziale o allegoria esistenzialista, è quella di un uomo che ha smarrito la propria strada e di un angelo, precipitato dal cielo, che lo aiuterà a ritrovare la direzione. Il palco, disseminato di pietre, si presenta come una sterile wasteland in cui sono sepolte, come tanti cadaveri, le memorie di una felicità perduta, di un passato edenico dal quale il Tempo ha espulso l’Uomo.
Arrampicato su un alto palo del telefono, con due cicatrici rosse disegnate sulla schiena al posto delle ali, se ne sta il giovane angelo Gratìs, che si staglia su un surreale fondale verdeacqua, fiocamente illuminato, a ricreare quell’atmosfera tipicamente beckettiana, presto confermata anche dall’inanità delle azioni compiute dai due protagonisti: riempire e svuotare di sassi dei rimbombanti secchi di ferro. Le coreografie del Raccoglitore e del divino Apprendista che vuole apprenderne il mestiere e dissotterrarne i ricordi, sono brevissime ed essenziali, composte da una precisa partitura di gesti in sequenza, movimenti minimali di braccia e gambe più che veri e propri passi o figure danzate.
La sublime poeticità di questo “Cielo sopra Berlino” dai tratti onirici e metafisici è meravigliosamente condensata nella scena della camicetta bianca che viene fatta volare attaccata a una sorta di canna da pesca, e che personifica la grande assente del dramma: la donna perduta. La causa dell’infelicità dell’Uomo, che si è votato a un lavoro meccanico e alienante per obliare il proprio dolore, sono infatti, di nuovo, quegli “Altri” che “arrivano, se ne vanno, spariscono” dalla vita di ciascuno di noi, ma che, come l’Angelo gli insegnerà, ci lasciano però sempre il tesoro prezioso di una storia unica e irripetibile da custodire. Impossibile non commuoversi nella scena finale in cui, seduti l’uno nelle gambe dell’altro, i due protagonisti incedono lentamente lungo il fiume della vita, a bordo di una canoa immaginaria, a ricordarci che, anche se l’Inferno sono gli Altri, vale sempre la pena percorrere un tratto di strada in compagnia.
E lo “stare insieme” sembra essere anche il punto focale degli interventi conclusivi di questa rassegna che, accanto a un invito a riscoprire la corporeità partendo dall’educazione nelle scuole, auspicano soprattutto un ritorno a una concezione di arte comunitaria: la danza e il teatro come occasioni di riunione collettiva e celebrazione festiva, come partecipazione e relazione.
Per Alessandro Pontremoli, docente di Storia della danza al Dams di Torino, l’arte deve riacquistare la sua dimensione di prassi e di colloquio con i bisogni della gente, smettendo di parlare di estetiche e tornando a parlare di pratiche. Perché il teatro, come ricorda il direttore dell’AMAT Gilberto Santini, citando Jerzy Grotowski: “È l’incontro, l’andare uno incontro all’altro, deporre le armi, non avere paura gli uni degli altri. E poco importa che lo si chiami laboratorio, poco importa che si continui a chiamarlo teatro. Un tale luogo è necessario”.