E’ interamente italiana la seconda tappa di Interplay/17, che dedica un doppio sguardo sui dispositivi massmediatici, televisivi e cinematografici, affiancando le interpretazioni di Andrea Costanzo Martini, nuova promessa della giovane coreografia italiana anche se attualmente vive in Israele, e del celeberrimo Roberto Castello, artista di fama internazionale ormai consolidata.
Il primo è un solo, “Trop”, scritto per sé stesso da Andrea Costanzo Martini, secondo una formula già sperimentata nel 2016 con “What happened in Torino”, presentato sullo stesso palco di Interplay.
Se lo scorso anno il media al centro del focus era stata la radio, in “Trop” il protagonista dialoga invece con e attraverso una televisione, posta in scena vicino a lui, co-protagonista a tutti gli effetti. La vocazione postmoderna dell’operazione risulta pienamente dai video che si alternano sul piccolo schermo: dal primo piano di un sinistro volto femminile che impartisce ordini, al nonsense di un uovo che frigge in padella. A riconfermarla è lo stesso movimento del performer, pregno di una comicità intrinsecamente televisiva. L’interprete sembra infatti un Willy Coyote in bilico fra il divertito e il condannato, che attraverso una qualità coreografica discontinua e caricaturale si dichiara fin da subito parte di quel mondo televisivo cui assiste e da cui è assistito. E’ una sorta di gaga cartoonesco, uno “zapping della danza” che consente allo spettatore di distrarsi laddove troppa concentrazione – sembra confessarci Costanzo Martini – non servirebbe a niente. Come di fronte alla tv.
Quando infine un’effimera quanto banale palma gonfiabile viene “eretta” dal protagonista al centro della scena, lentamente, a mano, con una pompa ad aria, siamo tutti partecipi di quel suo sforzo inutile. “I want to see you dance” è la richiesta che compare in rosa sullo schermo sopra la sua testa, come un baloon, che ancora una volta richiama il cartone animato. E’ solo attraverso lo schermo televisivo che il giovane autore può infine comunicarci il suo desiderio di vederci, ma senza poterlo (o saperlo) più mettere in pratica.
Decisamente meno comico si dichiara fin da subito il secondo pezzo, un lungo e amaro spettacolo di Roberto Castello dal titolo “In girum imus nocte et consumimur igni”, palindromo latino traducibile con “andiamo in giro la notte e siamo consumati dal fuoco”, e che non a caso cita un film del 1978 di quello stesso Guy Debord autore de “La società dello spettacolo”.
Se una società bidimensionalizzata e bidimensionalizzante è per Debord il frutto malsano della cultura postmoderna, Castello, imparata la lezione, ne ritrae qui gli aspetti più grotteschi e disumanizzati in un lungo esodo ateo ed asettico.
Un inizio deciso apre la scena a suon di musica elettronica, precisa e minimale, che persisterà uguale per tutti e cinquanta i minuti di spettacolo, mentre un potente proiettore, altro perpetuo compagno di viaggio dello spettatore, modella e rimodella letteralmente lo spazio scenico cambiando angolatura di volta in volta, rispetto alle tre pareti nere che contornano il palco e sulle quali proietta geometrie in costante trasformazione. Con e sulla proiezione, che consiste di un semplice flusso di materia grigia simile a una texture digitale, si compone e si scompone la formazione di quattro performer, che, camminando, danzando, sbraitando e inciampando, procedono costanti in un’oscura marcia senza fine.
Lo spettacolo, preciso come una macchina, è scandito dall’ossessivo “Dark, Light” che una voce over registrata recita ogni volta che la proiezione si interrompe per consentire, nel buio, il cambio di posizione dei quattro condannati. Quasi come personaggi intrappolati in un videogame in bianco e nero, i danzatori sono costretti ad andare avanti (o meglio “in giro”) fino a che la console che li ospita e che li crea non verrà spenta dall’esterno. Un “Aspettando Godot” danzato con echi espressionistici, all’insegna dell’estetica digitale e techno tipica del Nuovo Millennio.
Bianco e nero è anche l’intero spazio scenico, illuminato da luci fredde e sinistre in quello che sembra un richiamo al noir cinematografico. Del noir, così, “In girum” condividerebbe anche quella poetica profondamente cinica e disillusa, quasi priva di sentimento, costruendo ogni sua scena in modo ancora bidimensionale, quasi antinarrativo, senza che nessuna scena prevarichi sulle altre.
Il risultato finale è una trance disumanizzante, che fa perdere le coordinate spaziali e la coscienza a chi si muove sul palco, procedendo verso il niente, e a chi da fuori osserva voyeristicamente, ma anche partecipe della perdizione dei quattro.
Castello si pone così di fronte al pubblico ermetico e provocatorio, ma altrettanto fruibile, attraverso uno spettacolo dal ritmo vivo, martellante e partecipativo, che difficilmente annoia e che difficilmente dimenticheremo una volta lasciata la sala.
Tobia Rossetti – YC4D Youngest Critics for Dance