Zaches Teatro alla ricerca di visioni trasversali. Intervista

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Il burattino di Zaches (photo: Guido Mencari)|Lost in Time (photo: Tittaferrante)
Il burattino di Zaches (photo: Guido Mencari)
Il burattino di Zaches (photo: Guido Mencari)

I toscani Zaches Teatro, insieme a Riserva Canini e Teatrino Giullare, sono tra le compagnie che più hanno sperimentato, in Italia, il teatro di figura, o meglio il teatro delle figure in tutti i suoi aspetti.
Il loro primo spettacolo risale al 2006, “One reel”, un omaggio al cinema muto e al teatro di Beckett; poi fu la volta di “Faustus Faustus”, sul mito della creazione. In ambedue la maschera veniva utilizzata come mezzo di grande potenza evocatrice.

Dal 2009 Zaches si è dedicato al progetto ambizioso del “Trittico della Visione”, composto dagli spettacoli “Il Fascino dell’Idiozia”, “Mal Bianco” e “48. Cronache di un silenzio”, che affronta l’opera pittorica di tre differenti artisti indagando l’atto del vedere come forma articolata di percezione.
“Il Fascino dell’Idiozia” è infatti un’indagine sulle atmosfere che abitano le Pitture Nere di Goya, mentre in “Mal Bianco” l’ispirazione iconografica è venuta dal maestro giapponese Hokusai, il creatore dei manga. Il terzo capitolo della Trilogia si è ispirato invece all’opera di Francis Bacon.

Zaches Teatro lavora sul connubio tra vari linguaggi artistici: la danza contemporanea, i mezzi espressivi del teatro di figura, l’uso della maschera, il rapporto tra movimenti plastici e musica/suono elettronico dal vivo.
Nel 2014 per i ragazzi è nato “Pinocchio”, dove sul palco vive un curioso ribaltamento: anziché essere i pupazzi a rappresentare gli esseri viventi, sono gli esseri umani, gli attori, a rappresentare dei burattini.

Abbiamo incontrato Luana Gramegna e Francesco Givone a Castel Fiorentino, dove per “Teatro tra le generazioni” hanno presentato una mostra di materiali e di fotografie su Pinocchio.

Che senso ha per voi utilizzare il teatro di figura, mimetizzare l’attore dietro alle maschere?
Per noi il teatro di figura è il teatro stesso, la maschera, la marionetta, l’ombra… non a caso questi mezzi sono alla base di tutto il teatro occidentale e orientale. Se ci si pensa, anche chi ha rivoluzionato il teatro del ‘900 non ha potuto fare a meno di riscoprire maschere e burattini, da Edward Gordon Craig a Antonine Artaud, da Meyerhold a Brecht e così via.
La maschera in particolare è un oggetto pieno di sfumature. Utilizzata in contesti scenici e rituali è, fin dall’antichità, un potentissimo mezzo di sdoppiamento. Indossare la maschera significa diventare qualcos’altro, qualcun altro. La maschera cela e rivela, in un processo attivo dove chi l’indossa non la subisce, ma la vive e la elabora, la riflette.
Nella nostra ultima produzione di teatro ragazzi, “Pinocchio”, gli attori sono marionette viventi e in quanto tali la maschera è fondamentale per creare un personaggio che non sia riconoscibile nell’attore, ma che lo trasformi completamente e costantemente; in questo modo con soltanto tre attori si possono mettere in scena molti diversi personaggi della storia di Pinocchio.

Che ruolo ha avuto nella vostra formazione la tradizione? So che in questa direzione per voi sono stati importanti il teatro russo e i suoi maestri…
La tradizione è sempre il punto di partenza, da conoscere e rielaborare. La tradizione è la storia, quell’enorme pentolone da cui attingere per creare qualche cosa di nuovo, di attuale.
I russi sono stati la “rivelazione”: anni fa vedemmo casualmente “White Cabin”, della compagnia Akhe, in quello splendido teatro che era il Jack and Joe Theater, sulle colline fiorentine. Fu una folgorazione, a seguire nello stesso spazio vedemmo i Derevo e il lavoro di Anton Adasinsky: altra folgorazione. Proponemmo ad Alexey Merkuschev, attore dei Derevo, di collaborare alla regia del nostro primo spettacolo; poi arrivò Nicolaj Karpov, grande maestro della biomeccanica teatrale, con cui abbiamo instaurato un lungo rapporto di amicizia e collaborazione nell’ambito della formazione.

Quella più recente con la Russia è legata proprio a Pinocchio, la vostra ultima produzione.
Pinocchio inizialmente ci è stato commissionato dal Teatro delle Marionette di Ekaterinburg, in Russia. Nel settembre 2013 la compagnia è volata negli Urali per lavorare con gli attori del teatro stabile di Ekaterinburg, creando una versione italo-russa della storia di Collodi, poco conosciuta dal quel pubblico.
L’incontro con questa favola è stato speciale: l’universo di Collodi ci ha subito appassionato, aprendo delle possibilità espressive nuove per il linguaggio della compagnia e, primo tra tutti, l’uso della parola, senza rinunciare però alla cura estetica e drammaturgica nella scena, nelle luci, nel suono/musica e nel movimento degli attori. Ci siamo accorti, infatti, che il Pinocchio collodiano (e non quello edulcorato e semplificato delle versioni per bambini o dysneiana) ha atmosfere e immagini in grado di esaltare il linguaggio della compagnia, crudo e talvolta violento, ma al tempo stesso anche poetico e ironico. E così che è nato il nostro Pinocchio.

Lost in Time (photo: Tittaferrante)
Lost in Time (photo: Tittaferrante)

Com’è il vostro metodo di lavoro?
Nel tempo è molto cambiato: una volta individuato un tema cerchiamo di sviscerarlo il più possibile con ricerche bibliografiche ed iconografiche, poi tracciamo delle linee guida e iniziamo a confrontarci con Stefano Ciardi, che cura la composizione musicale, e con Enrica Zampetti che collabora alla drammaturgia.
Questa è la fase più divertente e creativa: si tracciano le linee drammaturgiche; in seguito si creano prototipi di maschere, si formano le prime linee musicali e ritmiche. Poi si entra in prova e si inizia a tirare le fila tra entusiasmo e frustrazione.

Quali sono i materiali con cui vi piace di più lavorare?
Per quello che riguarda la costruzione senz’altro il legno, ma purtroppo per questioni di tempo lo usiamo relativamente poco.
Per ciò che riguarda la musica invece utilizziamo spesso suoni reali registrati o captati direttamente in scena, attraverso l’uso dei microfoni sul palco, e rielaborati a volte anche in tempo reale.

In che modo avete reso per la scena l’arte di tre grandi maestri come Goya, Hokusai e Bacon?
Goya era luce e ombra, quindi abbiamo costruito una scatola nera con guizzi di luce che ricreavano la pennellata. Dobbiamo molto al teatro del nero.
Con Hokusai abbiamo cercato di rendere le figure quasi evanescenti utilizzando vari filtri: tulle, telo pvc, macchina del fumo, ribaltando lo spazio di Goya.
Per Bacon abbiamo creato una stanza d’albergo in cui il rosso è diventato il colore portante.

In Italia il teatro di figura è destinato ad essere percepito un teatro per ragazzi. Voi cosa ne pensate?
E’ così, e ci pare una visione estremamente riduttiva, provinciale… per quanto ci riguarda cerchiamo di costruire dei lavori che siano trasversali. “Pinocchio” è nato proprio con questo intento, raccontare ai ragazzi lasciando aperta la porta agli adulti. Essendo costruito su vari livelli di lettura lo spettacolo consente a molti tipi di pubblico di poterlo vedere cogliendone aspetti diversi; ognuno godrà dello spettacolo secondo la sua età e formazione, ma a nessuno ne è preclusa la visione.

Quali sono i vostri progetti futuri?
Stiamo lavorando al mito del Minotauro; era un po’ che sentivamo la voglia di confrontarci con l’antichità.

Ultima domanda: ma perché vi chiamate Zaches?
Zaches è un tributo ad uno scrittore che ci è molto caro, E.T.A Hoffmann. In uno dei suoi racconti narra la storia di un bambino che nasce bruttissimo, con la gobba e i capelli ispidi; un fata però fa un incantesimo e lo rende splendido agli occhi di chi lo guarda. Può essere metafora di molte cose…

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