A Santarcangelo, tra leggerezza pop e sensibilità politica

Il dopofestival ha chiuso le giornate di Santarcangelo|L'incontro in piazza Ganganelli con Mårten Spångberg|Mohamed Ali Ltaief (Dalì)|Art you lost?
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L'incontro in piazza Ganganelli con Mårten Spångberg
L’incontro in piazza Ganganelli con Mårten Spångberg (photo: Santarcangelo dei Teatri)

Si è chiuso ad alte temperature, tra tigri e nuvole, Santarcangelo · 14 – Festival Internazionale del Teatro in Piazza.
Dopo l’incursione di Mario Bianchi nel primo week-end, siamo tornati per goderci gli ultimi giorni di quest’edizione (degli spettacoli in programma vi parleremo prossimamente in dettaglio).

Arriviamo nelle piene ore della canicola, dopo una lenta traversata della pianura che separa Bologna dalla profonda Romagna. Il paesaggio muta, trasformandosi da urbano ad agricolo, al di là dei vetri di un treno senz’aria condizionata e inflazionato per il trasbordo estivo della popolazione cittadina verso la vacanziera costa adriatica.

Scendiamo alla stazione di Santarcangelo, lasciandoci alle spalle il giallo preponderante che macchia la campagna a campi di meloni e girasoli, e scambiamo qualche sorriso complice con i volti di chi, zaino in spalla, è lì sulla stessa banchina diretto verso l’uscita. Un’unica direzione: piazza Ganganelli, ombelico del festival.

L’atmosfera pomeridiana è silenziosa e poco movimentata: il clima è torrido, si sentono i cicaleggi dei prati vicini, i banchi del mercato smontano, molti sono seduti a mangiare piatti di pesce, altri s’intrattengono a chiacchiere e caffè, in attesa dei primi appuntamenti del tardo pomeriggio.
Poi, all’improvviso, si riempiono le strade.

Mohamed Ali Ltaief (Dalì)
Mohamed Ali Ltaief (Dalì) fotografato da Ilaria Scarpa

La nostra prima meta è la Piattaforma della Danza Balinese allo Spazio Saigi: in un angolo troviamo il set fotografico per i ritratti degli artisti (le banane appese al muro che avrete notato come cornici ai volti dei protagonisti di quest’edizione nelle gallerie pubblicate on line dal festival; qualcuno si chiede se siano una metaforica “crocifissione di Andy Warhol”), mentre nel resto della stanza, le prime incursioni performative (Cristina Rizzo, Mk, Fabrizio Favale) fluiscono con ritmo libero e senza rigida programmaticità, tra le narrazioni della piattaforma e le proiezioni in loop dei video girati in loco con l’ausilio di volontari.

E’ un luogo di scambio all’interno del quale i progetti coreografici presenti al festival trovano un comun denominatore da riproporre in nuove, brevi, estemporanee creazioni.
Ne è un esempio “Love in Bali”, video cui ha prestato il volto una delle ragazze coinvolte nel progetto di residenza di Strasse, ospite a Santarcangelo, nel quale mi imbatto in un momento di pausa il giorno successivo, riconoscendola. Si siede accanto a me sotto i portici di piazza Ganganelli, lanciando fischi e segnali a qualcuno che io non vedo dall’altra parte della piazza.
E’ in corso “Solo”, mi spiega, un percorso per spettatore unico che, guidato da varie scelte drammaturgiche da persone in incognito, viene disorientato provocatoriamente all’interno di uno spazio pubblico (in questo caso i luoghi del festival) affinché un senso di fragilità e smarrimento gli induca reazioni di appropriazione dello spazio.

Art you lost?
Art you lost? a Santarcangelo (photo: Ilaria Scarpa)

Ci dirigiamo verso “Art you Lost?”, installazione collettiva che raccoglie i segni e gli oggetti dei passaggi al festival nella scorsa edizione, e “Call me X”, presentazione multidisciplinare del lavoro di ricerca che ha condotto i Motus all’elaborazione del progetto Animale Politico, comprensivo di “Nella Tempesta” e “Caliban Cannibal”, visto poi al parco dei Cappuccini in serata.
Attraversiamo la piazza, inciampando nei bambini che, con agitato entusiasmo, fanno la spola tra cerchioni, telai ed attrezzi della ciclofficina e gli spruzzi d’acqua dell’installazione a forma di nuvola che accoglie dall’alto chi arriva in centro a Santarcangelo.

I volti sono rilassati, pronti agli spettacoli del programma serale. Una birra al volo al bar del festival e ognuno a seguire le indicazioni disseminate tra le vie, ora trafficate, verso lo Sferisterio, il Lavatoio, il Teatrino della Colleggiata, il Supercinema e l’Hangar Bornaccino.
Quest’ultimo, capanno industriale riedificato per funzioni residenziali ed artistiche è anche il luogo del dopofestival, il momento più pop di Santarcangelo, richiamo degli animali notturni e luogo di congedo, quando, giunti allo stremo dopo una giornata passata a camminare sotto il sole, ci si dà l’appuntamento per l’indomani.

Il dopofestival ha chiuso le giornate di Santarcangelo
Il dopofestival ha chiuso le giornate di Santarcangelo (photo: Santarcangelo dei Teatri)

E’ all’Hangar che vediamo una delle prime di Santarcangelo, “The Nature” di Mårten Spångberg (su cui ci soffermeremo nei prossimi giorni) e il live concert dei Dewey Dell, progetto nato nel 2007 a Cesena da un’idea di Demetrio Castellucci, che unisce sonorità elettroniche e percussive per l’unione di musica e coreografie.

L’ambient pop di alcune situazioni del festival è controbilanciato dai momenti di confronto che tessono il filo conduttore (anche sul piano della riflessione politica) delle scelte artistiche di quest’edizione: incontriamo il dibattito conclusivo del laboratorio che ha coinvolto gli studenti della Nomadic School e della School of Visual Theatre di Gerusalemme.
“To share spaces” (condividere gli spazi), nome di uno dei progetti-contenitore del festival, è un concetto che, applicato al teatro, serve alla rielaborazione del significato, a volte conservatore, di “identità”, ovvero che conduce alla necessità d’interrogare il modo in cui l’autorità prende forma e determina le scelte individuali e collettive sia in termini politici che artistici.

Ne discutono conduttori e pubblico seduti sulle sedie progettate per il festival dall’architetto francese Maël Veisse che, appartato all’ombra in un angolo della piazza, osserva divertito le relazioni che s’instaurano tra gli oggetti da lui abbandonati sul porfido e i passanti curiosi e casuali che li incontrano.
Accatastate in un mucchio informe, oppure disposte con ordine lungo i reticolati della pavimentazione, le sedie progettate per Santarcangelo, lasciate a disposizione di chi voglia concedersi un momento di riposo, giocano con il timore delle persone ad dover interagire con l’arte.
“Siamo abituati ad una fruizione museale dell’arte – commenta Maël – Siamo osservatori statici, e raramente pensiamo di poter essere parte di un’installazione. E’ curioso osservare come le persone siano timorose di spostare le sedie se trovate disposte in forme regolari come quadrati, cerchi, file. Hanno paura di rompere l’ordine di un’opera d’arte. Mentre se disposte in mucchi caotici o sparse nello spazio senza un’immediata e riconoscibile regolarità, si fanno avanti, danno una funzione alle cose che vedono perché le riconoscono come oggetto”.

Si parla di architettura e, chiacchierando di Mutonia, di come la ricerca estetica e la cura di una “costruzione” debbano essere elementi integranti di un senso pratico, specchio di funzionalità e di essenzialità. Vale anche per il teatro?
Qui a Santarcangelo, tra leggerezza pop e sensibilità politica, “divenire tigre, divenire nuvola” ci è sembrata una sintesi azzeccata.

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