Come è stato, in tutti questi anni, il rapporto con le istituzioni?
Pontedera è cresciuta, abbiamo realizzato molti festival, come quello di Santarcangelo di Romagna, Volterra Teatro, che divenne un festival internazionale con registi come Jan Fabre, Vasiliev, Raúl Ruiz, e poi Fabbrica Europa e ultimo Collinarea, nel comune di Lari, in collaborazione con Scenica Frammenti.
Un’esperienza unica e irripetibile fu l’edizione del 1978 del Festival di Santarcangelo, che diressi per otto anni. Quando mi sono occupato dei rapporti con le istituzioni ho sempre cercato un rapporto personale, senza relazionarmi con un ente o con un’istituzione fantomatica, ma con persone che umanamente potevano essere interessate a ciò che facevamo. Ricordo Renzo Remorini, vicesindaco di Pontedera, che veniva a vedere le prove degli spettacoli, il sindaco Carletto Monni ed Enrico Rossi, che è stato Presidente del teatro e adesso è Presidente della Regione. C’è sempre stato un rapporto personale con questi amministratori, che ci ha aiutato a realizzare il nostro sogno. Anche questo teatro, il Teatro Era, è nato da una sfida che io ed Enrico Rossi abbiamo portato avanti insieme.
Dalla prima sede, la Villa Comunale a quella di via Manzoni, fino a uno spazio di avanguardia, di rilevanza internazionale, quale è il Teatro Era. Quanto è legata l’identità dell’istituzione allo spazio? E questo nuovo teatro caratterizzerà anche una nuova identità?
Probabilmente sì, l’identità è anche legata allo spazio. La prima sede, quella della dependance della Villa Comunale, era allora assegnata alla banda, che però non funzionava.
Noi abbiamo tolto gli strumenti, l’abbiamo dipinta di nero e abbiamo creato il nostro spazio. Poi ci siamo trasferiti in via Manzoni, uno spazio dove è passato il teatro di tutto il mondo, e che è rimasta la nostra sede per tanti anni.
Il progetto del Teatro Era è stato fatto insieme all’architetto Marco Gaudenzi ed è nato dalla nostra idea di teatro. E’ un teatro di produzione, quindi prima di tutto progettato per chi fa teatro e poi per gli spettatori che sono ospiti. Ricordo una cena con l’architetto Marco Gaudenzi, Enrico Rossi e Grotowski in cui abbiamo iniziato a disegnare questo spazio, che doveva essere anzitutto un luogo di lavoro, con diverse sale, la foresteria, la biblioteca. Un teatro che lavora, non solo un luogo che ospita spettacoli. Gli spettacoli sono importanti, ma non sono la nostra unica attività. Quindi la struttura del teatro sicuramente rispecchia la nostra identità. C’è poi un altro aspetto importante: le persone che lavorano in questo luogo, che hanno uno stipendio regolare, condizionato dalle possibilità che abbiamo, lavorano da molti anni con lo spirito di una famiglia, e questo è ciò che produce l’energia necessaria sia per proseguire che per continuare a trasformarci. Questo è lo spirito delle origini che ci siamo sforzati di mantenere vivo. In questi giorni i nostri spettacoli stanno replicando all’estero – in Brasile, a New York, in Romania – mentre le produzioni dei giovani gruppi come il Teatro Minimo di Andria, con la drammaturgia di Michele Santeramo con il quale inizierò un lavoro a giugno, o Carrozzeria Orfeo sono inserite in teatri e festival prestigiosi. Siamo diventati una specie di multinazionale, ma sempre mantenendo disciplina, rigore e lo spirito dell’inizio.
Oltre ad ospitare maestri orientali del Teatro Nō o del Teatro Balinese, Pontedera ha prodotto i lavori di Thierry Salmon, Zingaro e Raúl Ruiz; ha ospitato lavori di Barba, Vasiliev e Jan Fabre. Ho letto una sua frase in cui descriveva Pontedera “un teatro intimamente aperto al mondo”. Come è stata vissuta questa esperienza di ambito internazionale?
Con questi maestri c’è sempre stato un rapporto di scambio che va al di là del teatro, e questa è la cosa fondamentale. Vasiliev è venuto al Teatro Era a lavorare per quaranta giorni con il suo gruppo, Jan Fabre e Peter Brook sono stati qui diverse volte, privatamente. Con César Brie giochiamo a scacchi da sei anni, e giochiamo insieme anche nella squadra di Pontedera. Questa atmosfera è uno dei motivi per cui faccio teatro, non potrei fare teatro con il fine di produrre spettacoli e farli girare. Il rapporto con i maestri, come quello con le nuove generazioni, è fondamentale. Per questo abbiamo ideato il progetto di quest’anno “L’Era delle cadute”.
…quello dedicato alle giovani compagnie…
Si, è iniziato lo scorso anno con il progetto “Scendere da cavallo” e da lì è nata l’idea di fare uno spettacolo collettivo. Il teatro spesso non offre la possibilità di questo genere di scambi, anche all’interno dei festival c’è molta chiusura, raramente si creano spazi di confronto e incontro in questo senso. La peculiarità della famosa edizione del 1978 del festival di Santarcangelo a cui ho accennato prima era proprio in questa rottura degli schemi, che coinvolgeva tutti, in teatro come in strada.
A Pontedera hanno iniziato la loro carriera molti attori ormai famosi, come Marco Paolini, Bustric, Ascanio Celestini, che ha creato a Pontedera lo spettacolo “Fabbrica” ispirato agli operai della Piaggio. Quindi è stata un’esperienza formativa e lo deve essere ancora, per me prima di tutti.
Quando abbiamo ideato il progetto Le pratiche del narrare, basato sulle diverse forme e modalità espressive della narrazione – musica, teatro, cinema, letteratura, fumetto – vennero registi come Andrej Tarkovskij e Wim Wenders, musicisti come Gaetano Giani Luporini, Alfredo Chiappori per il fumetto, e altri artisti come Giuliano Scabia, Vincenzo Cerami…
Quali sono i progetti di questi 40 anni che ha nel cuore?
Un altro grande progetto fu “Le mani che muovono i sogni, burattini tra oriente e occidente”. Invitammo artisti da tutto il mondo rappresentativi di questa forma di spettacolo, dal Bunraku giapponese al Wayang Kulit balinese, dal Teatro delle Ombre di Praga ai Pupi Siciliani e al Pulcinella napoletano. Organizzammo spettacoli e un laboratorio per gli insegnanti di Pontedera, fino a terminare con uno spettacolo collettivo di tutti questi artisti. Fu un’esperienza irripetibile vedere i Pupi assieme al Bunraku ed agli altri.
Un progetto incredibile fu anche “La presenza e il fare, rapporti tra liturgia e regia”. Invitammo Padre Turoldo e Padre Costa, gesuita, insieme a uomini di teatro come Giuliano Scabia e Leo Bassi, e realizzammo il progetto in parte a Pontedera, nella chiesa del Crocifisso, suscitando anche grandi polemiche, e in parte all’eremo delle Stinche da Padre Giovanni Vannucci, grande uomo di Chiesa.
Apertura verso le nuove generazioni e rapporto con il pubblico sono elementi che caratterizzano due delle attività più importanti la formazione, il workcenter e i progetti speciali. Come risponde il pubblico?
In maniera straordinaria, dovresti vederli! Domani sera c’è la seconda parte del progetto “50 spettatori da adottare” ed è previsto un incontro con Silvia Pasello; il tema sarà come lavorare sul personaggio.
Lo scorso anno il gruppo ha incontrato, fra gli altri, gli attori di Peter Brook e Oskaras Koršunovas, quest’anno incontreranno Daniel Pennac, Sergio Bustric, Walter Siti, che conosco da anni e che faceva per noi il tecnico delle luci quando abbiamo iniziato a fare teatro.
Nell’impostazione di un lavoro di ricerca e sperimentazione ha un qualche ruolo la tradizione?
Non ho mai cercato la tradizione, anche se ho fatto spettacoli che possono definirsi classici, come “Aspettando Godot”, “Amleto” e quest’anno dirigerò “Il giardino dei ciliegi” per il Teatro Nazionale Rumeno di Cluj con quattordici attori di tradizione. Metteremo in scena lo spettacolo in un teatro di 1000 posti che è monumento nazionale rumeno, ed è sempre tutto esaurito, un teatro in cui si fa lirica, teatro e danza, con 30 attori stabili. Per me, che non sono mai passato da un teatro di tradizione, è un confronto importante.
Completamente diverso dalla vostra esperienza…
Completamente. Gli attori lavorano in maniera del tutto diversa, con una professionalità e un impegno a tempo pieno. Sanno cantare, ballare, inventare, creare… Realizzeremo lo spettacolo con tempi molto più lunghi rispetto alle loro abitudini perché in un mese e mezzo – che per me è pochissimo – loro producono tantissimo. Il loro teatro produce 9 spettacoli l’anno e attualmente ne hanno in repertorio 20. Immagina un luogo in cui la mattina si prova teatro e la sera è in scena un’opera lirica: i loro tecnici montano la scenografia per la replica serale e la smontano per lasciar libera la scena per le prove del mattino. Ritmi e organizzazione quasi impossibili in Italia, ma devo dire anche grazie ad un amore per il lavoro che qui spesso non ritrovo.
Il teatro è un percorso di vita in cui si impara molto: si impara la costruzione della verità attraverso l’artificio. Nella vita pensiamo di vivere la vita reale, ma ci dimentichiamo di vivere momento per momento, quindi la nostra esistenza diventa irreale perché priva di consapevolezza, perché occupata da quello che ci accade o da quello che altri ci educano a pensare. Nel teatro, quando costruisci la finzione, tutti gli elementi e le modalità della costruzione implicano un’attenzione che è reale. Quando costruisci qualcosa che nel teatro è ripetibile e ci fai scorrere la vita dentro, l’attenzione con cui l’hai fatto lo rende più reale della vita quotidiana.
Un po’ come l’equazione arte=vita, alla base del primo Living Theatre?
È una traduzione, per loro era portare la vita nell’opera, io parlo della vita propria dell’opera costruita, che può paradossalmente essere più autentica di quella vera, quella che sta fuori, dove tutti vivono come automi. E’ in questo che il teatro può diventare uno strumento di autoformazione.
Per questo penso che sia fondamentale far vedere ai 50 spettatori adottati cosa c’è dietro il lavoro in scena, che cosa accade nel processo creativo di un attore quando, ad esempio, costruisce un personaggio.
L’anno passato, sempre per i nostri spettatori adottati, ho fatto con Silvia Pasello una dimostrazione, elaborando una sua improvvisazione fino ad arrivare a costruire con lo stesso materiale diverse scene possibili, utilizzando il montaggio dei materiali. Nasce così un punto di vista dello spettatore che offre molte più possibilità sia di comprensione che di creazione stessa per chi osserva. Lo spettatore casuale non può rendersi conto di tutto quello che sta nel processo creativo, a volte fatto di mesi di lavoro, di pensiero, di domande e di rigore. Grotowski, nei nostri incontri, è stato per me un maestro sull’utilizzo del pensiero. Direi di un pensiero maggiormente cosciente per affrontare anche la sfida del lavoro in sala.
Il pensiero necessario non è quindi quello che ti fa venire buone idee per uno spettacolo, ma piuttosto è uno strumento che ti spinge ad analizzare ogni argomento, ogni relazione di lavoro ed ogni dettaglio, fino a poter tu stesso crescere in consapevolezza su quello che è possibile affrontare con il lavoro.
I maestri trasmettono anche inquietudini dunque, non solo certezze.
Le inquietudini, che sono fondamentali, nascono fuori dal teatro, altrimenti parli di forme, parli di spettacolo. Ma il teatro non è spettacolo, come il cinema non è film. Il cinema è un’arte e i film sono i prodotti. Così lo spettacolo è solo il risultato, il teatro deve diventare un’esperienza dove lo spettatore non consuma, ma lavora. Facendo il regista io sono il primo spettatore e creo una relazione con gli attori che poi si moltiplica attraverso la presenza degli spettatori.
Cos’è la ricerca per Roberto Bacci?
La ricerca è proprio questo. Inventarsi gli strumenti perché questa relazione accada a un livello più alto. Come lavorare con il pensiero, come comprendere che cosa è realmente la percezione, come essere presente nelle domande che puoi rivolgerti sull’esistenza, sulla vita. Ci possono essere domande veicolate da un autore, ma anche domande che crei autonomamente dall’autore.
A volte sono partito da una frase, da un titolo e sono nate opere che sono state veramente momenti di meditazione, come quando ho fatto “Il cielo per terra”. Ho letto questa frase e mi sono chiesto cos’è il cielo per terra. Questa è diventata una domanda sull’assoluto, che abbiamo tradotto nel “circo dei numeri spirituali”, una specie di baraccone fantastico con Cacà Carvalho che ne interpretava il direttore e Luisa Pasello come antagonista. Uno spettacolo divertente e drammatico, in cui si mescolavano testi di grandi maestri spirituali con azioni circensi in cui l’uomo veniva utilizzato come un vero e proprio animale umano umiliato, esaltato, imprigionato.
In altri casi sono partito da grandi romanzi, come “Oblomov”, “L’Idiota”, “La montagna incantata”, “Storia di Giuseppe” di Thomas Mann, da cui ho tratto “Fratelli dei cani”. Anche in quest’ultimo caso lo spettacolo era nato da una frase in esso contenuta. Nelle prime pagine del libro di Mann si diceva: “Profondo è il pozzo del passato, insondabile”. Questa frase, così semplice, mi aveva procurato una riflessione su chi siamo, su quelli che sono venuti prima di noi… In questo pozzo delle generazioni c’è un punto da cui anche io provengo, dove le cellule che oggi danno vita al mio corpo sono nate. Partendo da questa riflessione siamo arrivati ad uno spettacolo in cui diseredati che abitano la strada dialogano con le frasi della Bibbia, ricordando una promessa del loro Creatore mai mantenuta. Il senso dell’esistenza si svuota dinanzi ad una condizione umana senza speranza e senza risposte. Dio diventa autore di un inganno che ci lascia a partorire generazioni e generazioni lungo i margini di una strada.
Pensando al futuro prossimo, come vede il teatro contemporaneo in Italia?
Sono per natura molto curioso, umanamente e artisticamente, per cui seguo le attività dei colleghi, con moltissimi dei quali ho avuto rapporti in passato, e devo dire che l’Italia è un Paese ricchissimo da punto di vista teatrale.
Paradossalmente una grande fortuna per l’Italia è stata quella di non avere una legge per il teatro, perché poteva lasciare lo spazio aperto per l’imprevedibile, mentre ora che ci sarà una vera e propria regolamentazione per il settore dello spettacolo, il rischio sarà quello di congelare ciò che invece dovrebbe restare disponibile all’imprevedibile. Perché l’ordine non sempre genera bellezza. L’ordine a volte uccide. Noi abbiamo avuto la fortuna di nascere quando le amministrazioni locali facevano una politica culturale e c’erano degli investimenti per questo. Oggi è tutto prosciugato, non c’è un circuito, c’è un mercato molto difficile fatto di piccoli festival, c’è un’economia insufficiente a sostenere l’esistente e a rendere possibile ciò che può nascere. La cultura ha bisogno di un sistema ecologico che permetta la nascita di nuove forme di vita in continua metamorfosi. Ma capisco che una legge che garantisca questo è quasi impossibile da emanare.
Tuttavia occorre trovare altre forme e altri strumenti perché il teatro non diventi un semplice mercato di spettacoli di natura privata e pubblica. Pontedera è esistita come una anomalia necessaria, in questo è stata un esempio, ed è compito nostro oggi, dopo 40 anni, continuare a farla crescere ancora come una anomalia.